martedì 27 marzo 2018
Dopo una sola settimana dalla sua rielezione, la ritorsione occidentale dopo l'avvelenamento dell'ex spia Skripal a Londra addensa nubi sulla presidenza di Putin
L'ambasciata russa a Washington (Ansa)

L'ambasciata russa a Washington (Ansa)

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In un raro esempio di coordinazione transatlantica, ieri l’Occidente ha dimostrato la sua “tolleranza zero” per le sfide di Mosca al diritto internazionale, cacciando circa 100 diplomatici russi. Seguendo le orme di Londra, che addita Mosca come responsabile degli avvelenamenti con un agente nervino della ex spia russa Sergeij Skripal e della figlia Yulia nel Regno Unito, 14 Stati membri dell’Ue, Stati Uniti, Canada, Ucraina e Albania hanno annunciato allo stesso tempo l’espulsione dei funzionari. Fra i 14 Paesi Ue compare anche l’Italia, che ha deciso di mettere alla porta due diplomatici. La Russia denuncia le «provocazioni» e promette di ripagare l’Occidente con la stessa moneta.

Settantotto anni fa di questi giorni Josif Stalin licenziava sulla “Pravda” un editoriale intitolato «La vertigine del successo», nel quale – come ricorda Vasilij Grossman nel suo tragico romanzo “Tutto scorre…” – ammoniva il partito e l’apparato sovietico a non cullarsi oltre misura per la vittoria ottenuta contro la classe dei kulaki, annientata dalla collettivizzazione forzata dell’agricoltura.

In queste ore Vladimir Putin farebbe bene a rileggersi quell’articolo. È passata solo una settimana dalla sua trionfale riconferma alla guida della Federazione Russa, una vittoria conseguita fra l’altro soffiando sull’immagine di una nazione accerchiata e stretta d’assedio dall’Occidente.

Ora però il cielo sopra lo Zar si va addensando di nubi, un convoglio denso e minaccioso dopo la decisione americana e di 14 Paesi membri dell’Unione Europea di espellere un nutritissimo numero di diplomatici russi a seguito dell’affaire Skripal. Un salto di livello nella pressione diplomatica dell’Alleanza Atlantica e della Ue che il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha definito «la straordinaria risposta internazionale dei nostri alleati e la più grande espulsione collettiva di agenti dell’intelligence russa nella Storia».

Per ora si tratta di una ritorsione diplomatica, se pure di inusitata dimensione, ma se ancora mancava un ingrediente per confermare il ritorno a pieno titolo della Guerra Fredda, la retaliation sul corpo diplomatico come risposta all’avvelenamento dell’ex spia del Gru sgombra definitivamente il campo da ogni illusione. Il muso duro degli Stati Uniti del resto non è una novità.

Giusto un mese fa con la pubblicazione della Nuclear Posture Review – la “dottrina nucleare” americana – l’Amministrazione Trump metteva in soffitta l’era Obama che puntava a un contenimento del potenziale nucleare, annunciando un suo rammodernamento (ossia un incremento della spesa e dell’arsenale e il progetto di due nuove testate nucleari a basso potenziale, utilizzabili anche in caso di un conflitto convenzionale, tra cui una riedizione dei famigerati missili Cruise, destinati ai sottomarini) in quanto il momento di abbandonare l’opzione atomica «non è ancora arrivato». Anche quella era una risposta proporzionata al riarmo annunciato da Putin, che ha cominciato a schierare nel Baltico e al confine con il Kazakistan vettori in grado di colpire quasi l’intero quadrante della Nato e del Medio Oriente. Secondo molti, ciò che accade è esattamente quello che Putin si prefiggeva: una Russia forte, temuta, anche se accerchiata.

Ma la Russia di Putin non è quella di Leonid Breznev. La Russia di oggi è ancora una media potenza mascherata da superpotenza, con un’economia in affanno – anche senza il concorso delle sanzioni lo sarebbe comunque – e un grande bisogno di investimenti nelle infrastrutture, con una crisi ai confini anch’essa mascherata da grande vittoria geopolitica (in Ucraina c’è uno stallo pressoché insuperabile, in Medio Oriente sono gli iraniani e non i russi a gestire il gioco), con un malessere interno che si specchia nell’apatica deriva che ha portato il 77 per cento dei russi a confermarlo al Cremlino per altri sei anni senza alcun particolare entusiasmo, e con una scalpitante nomenklatura che si domanda fin d’ora come sarà il dopo-Putin (e soprattutto che fine faranno i robusti interessi privati dei tanti oligarchi, degli “apparatciki”, dei “nuovi russi” arricchitisi nel cerchio magico dello Zar). Fino ad ora i giornali e i media russi hanno descritto la guerra diplomatica in corso come un «complotto occidentale», glissando sulla vicenda dell’ex spia di cui solo una minoranza è a conoscenza e rinfocolando un diffuso sentimento anti-occidentale.

Negli anni Settanta la superpotenza sovietica poteva permettersi di sottoscrivere gli Accordi di Helsinki perché condivideva con gli Stati Uniti una situazione di equilibrio. La Russia di Putin invece è una zattera temibile che naviga in un mare insidioso, dove basta un piccolo incidente a far precipitare il mondo in una guerra rovinosa. Ed è proprio la «vertigine del successo», il rischio peggiore per Putin. Un isolamento di nome e di fatto che non giova a nessuno.

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