venerdì 13 gennaio 2023
I ruderi della chiesa, del Patriarcato di Mosca, ricordano che lì vivevano 500 persone. Uno dei pochi rimasti: «Non hanno avuto rispetto neppure della loro religione»
Le case e la chiesa del patriarcato di Mosca devastate dall’esercito russo in ritirata nel villaggio di Yatskivka: quasi tutti i 500 abitanti hanno ormai lasciato la zona da tempo

Le case e la chiesa del patriarcato di Mosca devastate dall’esercito russo in ritirata nel villaggio di Yatskivka: quasi tutti i 500 abitanti hanno ormai lasciato la zona da tempo - Gambassi

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Una mano anonima, o forse più di una, ha issato il cannone strappato a un carro armato sopra alcuni tronchi d’albero perché sia ben visibile sul ciglio della strada e ricordi a chi passa che cosa ha fatto. Non c’è altro del mezzo militare di Mosca che «sparava sulle nostre vite», racconta Volodymyr. Ma non c’è bisogno delle frasi di un agricoltore di mezz’età, che parla russo ma è ucraino fin nel midollo, per capire come l’esercito del Cremlino lo abbia utilizzato.

Non è rimasta intatta neppure una casa a Yatskivka, primo villaggio che si incontra appena arrivati nella regione di Donetsk. Una sorta di monumento con il nome dell’oblast impresso nel cemento dà il benvenuto in un angolo dell’Ucraina orientale che con otto anni di anticipo ha sperimentato l’invasione russa – a causa dell’aggressione del Donbass – e che adesso è il nuovo epicentro della guerra.

Più che un villaggio, Yatskivka è una scia di abitazioni intorno a un’unica via che, nonostante sia un colabrodo, unisce la regione di Kharkiv fino a Lugansk. E poi qualche negozio, un paio di piccole aziende, la chiesa. Un luogo anche di villeggiatura lungo le sponde del fiume Oskil. «E un buon posto per cercare i funghi», prova a sorridere Volodymyr. Nulla si è salvato dalla furia distruttrice russa di cui Yatskivka è una delle più atroci prove. Perché racconta l’annientamento sistematico che ha preceduto la ritirata del «nemico» e che è stato condotto con tutto ciò che si aveva a disposizione: aerei, carri armati, artiglieria leggera. Era settembre e si concludevano oltre sei mesi di occupazione.

Entrare oggi nel villaggio vuol dire immergersi in un paese fantasma che la neve rende ancora più spettrale. Impossibile viverci quando di molte case non rimane alzato neppure un muro e al posto delle stanze ci sono soltanto cumuli di detriti. Oppure i piloni delle linee elettriche sono stati abbattuti uno dopo l’altro e le cabine di trasformazione devastate. O è stata tutta troncata la conduttura del gas che non è interrata ma si muove come un serpente giallo a tre o quattro metri dal suolo. O ancora l’intera terra è una bomba a orologeria, disseminata com’è di oggetti esplosivi: e basta scendere dall’auto per trovarsi a due passi una granata da disinnescare lanciata da qualche mortaio.

«Hanno voluto rendere il villaggio inabitabile», ripete con rabbia Volodymyr mentre cammina tra i mattoni, i mobili bruciati e le lamiere che riempiono il giardino della sua villetta. L’ha abbandonata come tutti. «Eravamo in cinquecento qui». Ora fa la spola con Izyum, altra città martire dove è stata scoperta la più grande fossa comune e che è a venticinque chilometri.

Lui si considera fortunato. «Manca solo il tetto alla mia casa». Lo ha rimpiazzato con i teli di plastica blu che un’organizzazione umanitaria gli ha fornito. Così qua e là, fra i ruderi, compaiono queste “tende” ad alto impatto visivo che, però, almeno rompono il grigiore dello sterminio urbano. Lo scheletro dall’altro lato della via è l’ex abitazione di Lyudmyla, energica pensionata che si è trasferita dai figli. Sul cancello arrugginito si legge “Persone”. È una grande scritta bianca. «I russi ci avevano detto di farla per indicare dove vivevamo. All’inizio dell’occupazione ci hanno persino portato il cibo. Poi tutto è cambiato. Ci è stato vietato di uscire. I soldati rubavano quanto più potevano».

Il villaggio ha ospitato anche il quartier generale locale. «Avevano messo gli occhi sulla diga del fiume», chiarisce Lyudmyla. Era una delle grandi “fonti” d’acqua potabile del comprensorio. «L’hanno fatta saltare in aria a primavera», fa sapere Volodymyr. E indica una palazzina a due piani requisita dai russi. I servizi di sicurezza di Kiev ci ha trovato l’elenco di quanti erano stati arrestati con falsi pretesti dai militari di Mosca e decine di passaporti ucraini sequestrati. «Al loro fianco c’era sempre la vice-capo villaggio. Una di noi diventata spia», si inalbera Lyudmyla. È appena finita in cella con l’accusa di collaborazionismo.

Gli scontri fra i due eserciti hanno lambito il piccolo centro. Ma l’inferno di fuoco sarebbe arrivato come ritorsione per l’avanzata delle truppe di Kiev. «Un pezzo di missile è finito anche sul letto di camera mia. E c’è stata un’onda d’urto così violenta che sono saltate dodici finestre in contemporanea», ricorda Natalia. Sfollata anche lei. Ma di tanto in tanto si ripresenta con il marito per controllare il relitto di una «vita di sacrifici», sospira.

Anche la chiesa “mignon” che mostra la croce del patriarcato di Mosca è semidistrutta. «Non hanno avuto rispetto neppure della loro religione», sottolinea la donna. Fra i militari ucraini che hanno riconquistato il villaggio c’era anche l’ex tennista Sergiy Stakhovsky. «Ho rischiato la vita durante la liberazione di Yatskivka quando un razzo ha colpito il carro armato in cui mi trovavo», ha rivelato all’Equipe. Ora i rottami che si vedono intorno sono solo russi. Ma in lontananza il rumore dei colpi d’artiglieria che arrivano dal fronte e che rompono il silenzio dicono di una guerra che anche da qui potrebbe tornare a passare.

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