giovedì 15 dicembre 2022
Naufraga l’ipotesi che lo stallo al fronte si traduca in un simbolico cessate il fuoco
Un missile lanciato dagli ucraini contro le postazioni russe in Donetsk

Un missile lanciato dagli ucraini contro le postazioni russe in Donetsk - Reuters

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Non ci sarà la tregua di Natale. Non taceranno le armi sul suolo insanguinato dell’Ucraina, l’appello di Volodymyr Zelensky per un cessate il fuoco, primo passo verso un faticoso avvio di colloqui sembra caduto nel vuoto. «Nessuna proposta è stata ricevuta da nessuno di noi, tale argomento non è all’ordine del giorno» è la stringata risposta del portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov a chi gli domandava se una tregua di fine anno fosse alle viste. «L’operazione militare speciale continua», ha aggiunto. La conclusione, raggelante come il clima dell’Ucraina nella morsa del gelo provocato dai quotidiani bombardamenti russi, è una sola: la guerra continua. Le due date natalizie – il 25 per l’Occidente, il 7 gennaio per la tradizione russa – non fanno testo.

A parlare sono invece altre evidenze. Come la mancata conferenza di fine anno di Vladimir Putin, sostituita da un discorso alle Camere senza contradditorio. E più ancora la legge di bilancio per il 2023 firmata l’11 dicembre scorso, in base alla quale il governo di Mosca ha stanziato per la difesa, la sicurezza e le forze dell’ordine 9 mila miliardi di rubli, pari a 134 miliardi di euro. Una somma imponente, che a giudizio della Banca mondiale equivale all’8% del Pil russo del 2021, e che soprattutto mobilita quasi un terzo dell’intera spesa pubblica della Federazione. Un tragico tributo a quel «Si vis pacem para bellum», ipercitato motto latino (da Vegezio a Sallustio a Cornelio Nepote, tutti gli scrittori imperiali ne hanno fatto uso e vanto) che si attaglia alla perfezione al continuo sforzo bellicistico di Mosca, indotta a prosciugare risorse e ricchezze per finanziare la sua guerra contro l’Occidente.

E poco importa se la mancata tregua di Natale (e di Capodanno) contrassegni impietosamente lo stallo militare nel quale si trovano ora sia l’invasore che l’aggredito, l’uno e l’altro ostaggi del gelo, i russi in attesa che il suolo ghiacci per ottenere la maggior mobilità delle truppe corazzate, l’altro prigioniero di una nazione dove l’elettricità e il riscaldamento sono diventati un lusso raro.
Stallo, dunque, ma stallo di guerra. Niente sconti di fine anno. Già sembrano inghiottite nel silenzio le parole che Putin aveva pronunciato pochi giorni fa: «Alla fine, raggiungere un accordo sull’Ucraina è inevitabile», aveva detto, preceduto tuttavia dalla concreta minaccia dell’olocausto nucleare. Parole pesanti come le tonnellate di bombe scaricate in dieci mesi sull’Ucraina invasa.

Nessuna chance per la pace, si direbbe. Ma non è del tutto vero. «Siamo stati testimoni, con l'accordo sul grano e sullo scambio di prigionieri, che la strada per la pace può essere spianata se viene data un'opportunità alla diplomazia. Noi continuiamo in questa direzione». Sono parole del presidente turco Erdogan, che apparentemente – dopo il «nyet» con cui è stata respinta la proposta della Santa Sede di ospitare in Vaticano i colloqui di pace fra Mosca e Kiev – è l’unico punto di contatto fra Russia e Ucraina.
E anche questo non è del tutto vero. Appena sotto la soglia della diplomazia si muovono altri più silenziosi attori: militari, servizi segreti, qualche politico, per conservare l’embrione di un dialogo. Quelli cioè – e sono soprattutto gli strateghi delle due superpotenze – la cui missione è evitare a ogni costo il confronto nucleare fra Mosca e Washington, fra la Nato e la Russia. Non tutti, a dire il vero. Da giorni si vocifera delle dimissioni del capo di stato maggiore russo, il generale Gerasimov. Forse ci sarà un cambio al vertice delle forze armate. Di certo non sta per arrivare un uomo di pace.




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