mercoledì 28 dicembre 2022
L’esperienza delle “Scuole della pace” di Sant’Egidio per esprimere il dolore dinanzi al conflitto. Due razzi russi «si fermano» davanti a una parrocchia di Kherson gremita di persone
I tanti bambini  che frequentano  le “Scuole della Pace” della Comunità di Sant’Egidio in Ucraina, attraverso  i disegni esprimono le loro angosce  e le loro speranze. Raccontano la guerra vista con  i propri occhi  e le proprie paure: un modo per condividere fragilità e sogni

I tanti bambini che frequentano le “Scuole della Pace” della Comunità di Sant’Egidio in Ucraina, attraverso i disegni esprimono le loro angosce e le loro speranze. Raccontano la guerra vista con i propri occhi e le proprie paure: un modo per condividere fragilità e sogni - Sant'Egidio

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Un minaccioso carro armato russo punta il cannone nella direzione di una casa. All’interno, un neonato dorme nella culletta. L’immagine ferma il momento esatto dello sparo, ma già lascia presagire come andrà a finire. È solo un disegno, ma racconta un fatto vero. E in quei tratti scuri color pastello c’è tutta la guerra subita dai piccoli e decisa dai grandi.

Il polittico dell’aggressione è in quelle pagine in formato A4. Un atto d’accusa che da solo varrebbe un processo per l’infanzia rubata. Bisogna andare nelle “Scuole della pace” della Comunità di Sant’Egidio per farsi raccontare la verità che solo i bambini sanno dire. Perché quelli non sono semplici tratti di matite colorate, ma il tormento intimo del conflitto e dei suoi effetti collaterali sull’Ucraina del domani.

Anche l’Unicef ha pensato alla creatività per raccontare non solo a parole le paure dei bambini. Iryna, un’insegnante sfollata con la figlia di dieci anni dal Donbass a Zaporizhia, è volontaria in un centro per l’infanzia aperto dall’agenzia Onu per i più piccoli. «Dallo scoppio della guerra - racconta - ho notato un aumento dei colori scuri e di scene strazianti». Anche gli operatori della Comunità di Sant’Egidio in Ucraina osservano la medesima tendenza nelle loro “scuole”.

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A Leopoli, a Kiev e in altri oblast si trovano quei centri che guardano già al dopo. Posti dove si parla di bombe, di missili, di aerei il cui volo faceva una volta sognare i più piccoli ma che oggi il solo rombo lontano fa presagire il mostro d’acciaio piomba volte volteggiando per sganciare altra morte. Altri imprimono sui fogli bianchi alcuni incubi ricorrenti. Come il ponte distrutto di Irpin, simbolo delle vie di fuga spezzate per intrappolare i civili e tenerli sotto i colpi dell’artiglieria.

Storie che ricorrono tra un disegno e una canzoncina di Natale, quando finalmente si scioglie il nodo in gola, e i bambini riescono a dare un nome ai propri incubi. Servono anche a questo le “Scuole della pace”, a non aver paura di sentirsi fragili, a non covare l’odio come unica risposta alla propria paura. «Guerra», «soldato», «resistenza», «mine», «strage», non sono parole da bambino.
Ma con queste bisogna fare i conti. I grandi chiamano i russi «orchi». E non serve altro per scavare un fossato tra vittime e carnefici.

Ma tra un incubo e un desiderio, i bambini tornano bambini, e nei loro sogni c’è la vita di prima, quella normalità che ora è un lusso anche solo desiderare. Si pensa a cose più urgenti. Oleksandra ha 7 anni e dice di aver bisogno di un cappotto nuovo. Davyd è il più piccolo di cinque fratelli, gli servono un paio di scarpe. Anastasiya ha perso tutti i suoi giocattoli e immagina di avere una Barbie. Non la chiede. Pensa che sia sciocco parlare di bambole in tempo di guerra. Dice solo di desiderarla, e quasi se ne vergogna.

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«Tutti noi, adulti e bambini, siamo cambiati in modo significativo dall’inizio della guerra», dice Iryna, che è stata costretta a fuggire dalla propria casa e ha trovato riparo nella regione di Zaporizhia, certo non il posto più sicuro dell’Ucraina, ma almeno le trincee sono lontane e bisogna fare i conti solo con i missili. «È difficile per tutti noi - ripete -, ma abbiamo tutti bisogno di sostegno e sollievo».

Il lavoro dei volontari è duro. «Ma quando si aiutano gli altri, si scopre il senso della vita e della libertà - osserva Yuri Lifanse, uno dei coordinatori delle attività di Sant’Egidio in Ucraina -. Aiutare i più fragili è la libertà più grande perché, sostenendoli, si comunica direttamente con tanti tipi di persone diverse: dai senzatetto ai ministri e ai sindaci. E si fa l’apparentemente impossibile».

E chissà che un giorno i piccoli sopravvissuti alla guerra possano disegnare i missili che non esplodono e le vite che non andrano perdute. Come quelle del “miracolo di Natale” a Kherson. Lo ha ribattezzato così il vescovo cattolico latino di Odessa-Simferopoli, Stanislav Szyrokoradiuk. Ha raccontato dei due razzi russi puntati contro la parrocchia cattolica, in quel momento piena di famiglie e bambini. «Un missile è caduto, si è spezzato a metà ma non è esploso. L’altro - ha raccontato il presule - ha sfondato un muro della chiesa, ma non c’è stato nessuno scoppio».

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