sabato 11 giugno 2022
Per la gente è stato un sacrificio necessario, però ci si lamenta che il governo di Kiev si sia dimenticato troppo a lungo di questa area
Viktor Kostuchenko. pensionato, mostra i suoi campi, a Demydiv, in parte ancora allagati

Viktor Kostuchenko. pensionato, mostra i suoi campi, a Demydiv, in parte ancora allagati - Capuzzi

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Gli alberi di mele hanno trascorso la stagione della fioritura senza una gemma. Quest’anno non daranno frutto. «Forse nemmeno il prossimo. Chissà se sopravviveranno». Viktor Kostuchenko guarda le piante con tenerezza. Le sue piante piegate e senza foglie, ormai moribonde. Anche i campi sono desolati. Una distesa di fango. «È stata l’acqua. Io c’ero quando hanno allagato tutto. Non mi sono mai mosso di qui. Sono stati i russi a doversene andare».

Né l’inondazione indotta, né i tank di Mosca né i lunghi giorni di combattimento hanno convinto questo pensionato di una settantina d’anni a lasciare il suo podere. Appena un piccolo campo in grado di produrre un po’ di patate o carote e della frutta con cui Viktor come gli altri abitanti di Demydiv, tremila prima del conflitto, poco più della metà ora, integrano i magri stipendi dei lavori saltuari trovati nella capitale, a meno di cinquanta chilometri di distanza.

L’anziano è rimasto il 25 febbraio quando la colonna di blindati del Cremlino, entrata dalla Bielorussia, ha cercato di fagocitare la cittadina nell’intento di aprirsi un varco verso la capitale. L’esercito ucraino ha sbarrato il passo ai tank. Con il fuoco dell’artiglieria e, soprattutto, con l’acqua. Costruita sulle rive del fiume Irpin, Demydiv è nota per la grande diga che rifornisce di elettricità Kiev. Per arrestare l’avanzata russa, le autorità ucraine hanno aperto le paratie, trasformando l’intera area di tre chilometri quadrati, tra Lutiszh e Kasarovich, in una palude.

Una sessantina, delle 750 case del villaggio, è stata allegata. Quella di Viktor, proprio al lato della diga, è stata colta da un mini-tsunami. Oltre tre mesi dopo, le tracce dell’acqua sono ovunque: il pavimento è un tappeto ondulato, pareti e mobili sono gonfi e cosparsi di chiazze di muffa. «Questo è niente. Doveva vedere che cosa c’era. Per settimane, con mia moglie abbiamo dormito in cucina che era il posto più asciutto. Il campo poi... Un disastro. Ma che altro si poteva fare? Senza il nostro sacrificio, Kiev sarebbe stata presa. E non ci sarebbe stato più scampo per nessuno».

Insieme alla “sorella maggiore” Chernihuiv, duecento chilometri ad est, Demydiv è tra i centri ucraini che più hanno contribuito a impedire l’assedio e l’occupazione di Kiev da parte dell’esercito russo. «Non so, però, quanto il governo se lo ricorderà. Sulle prime sembra averci dimenticato», afferma Konstantin, figlio di Viktor. Solo di recente le autorità hanno sguinzagliato gli ispettori per censire i danni.

«Ad aprile, quando i russi si sono ritirati, abbiamo dovuto aspirare l’acqua con questo ferro vecchio», aggiunge il giovane mentre indica una vecchia pompa aspirante sopravvissuta all’Urss. «Per alimentarla ci vogliono dieci litri di benzina all’ora. Ce la siamo dovuti pagare di tasca nostra, con quel che costa il carburante. Faccia i conti: ci sono volute due settimane per togliere il grosso… Abbiamo speso l’equivalente di 2mila euro – aggiunge il giovane –. Per fortuna ci siamo dati una mano l’un l’altro nella comunità. Anche la stampa ha fatto il suo: ha denunciato e denunciato fin quando, alla fine, il governo si è ricordato di noi e ci ha inviato gli aspiratori».

Di tanto in tanto, sulla strada e nei poderi circostanti si vedono le bocche di metallo intente a risucchiare l’acqua. «Già, ce n’è ancora. Vede questa strada? Era un fiume. L’acqua mi arrivava alla vita. Non potevamo camminare, figuriamoci correre – dice Natalia Bikhovchenko che abita di fronte a Viktor –. E i russi continuavano a bombardare. Per vendicarsi del fatto di essere stati fermati, volevano far saltare l’intera diga. Allora sì che sarebbe stata una catastrofe». Un missile ha sfiorato l’invaso senza, però, produrre danni rilevanti. Niente in confronto all’ordigno di cinquecento chili scagliato su via Kiev, al centro di Demydiv.

L’enorme cratere scavato da quest’ultimo non c’è più: il 15 aprile è stato coperto da uno strato di asfalto. La sua presenza, però, è indelebile. Nel paesaggio: le case e i negozietti intorno alla strada sono un ammasso di lamiere contorte. Come nella memoria dei residenti. «L’hanno lanciata il 4 marzo alle 18.45», afferma con sicurezza Vera, proprietaria dell’emporio cittadino. L’impatto ha fatto saltare i vetri delle finestre di quest’ultimo e fatto volare una parte del tetto. Il buco è tuttora in bella mostra. La donna, come gran parte degli abitanti, è fuggita poco dopo.

«Anche io me ne sono andata. Non ce la facevo più... – dice Natalia –. Sono rientrata il 18 aprile e mi sono messa all’opera». La casa ora è asciutta ma le crepe sui muri sono profonde, le pareti emanano un intenso odore di umidità e il garage è inagibile. Da una prima conta, i danni ammontano a diverse migliaia di dollari. «Quello che più mi dispiace è il campo. Coltivavo ortaggi e frutta».

Prima della guerra, Natalia faceva la commessa a Kiev. Con l’inizio del conflitto, però, il magazzino in cui lavorava l’ha messa in aspettativa, senza stipendio. Formalmente, dunque, la donna non rientra nella categoria dei disoccupati ma, di fatto, lo è. È una strategia impiegata da molte aziende per contenere i costi senza attirare proteste. «Avere un po’ di cibo gratis, dalla mia terra, mi avrebbe fatto comodo. Ma pazienza. Abbiamo salvato molte vite. E anche noi stessi. Ha visto che cosa hanno fatto i soldati di Mosca a Bucha?». Proprio per sfuggire all’imbuto di Demydiv i militari russi si sono spostati ad ovest, verso Gostomel, Irpin e Bucha.

Mentre parla la vicina, Viktor riprende a piallare le assi del pavimento. Lo sta rimettendo a posto da solo. Il figlio, anche lui disoccupato dopo che un missile russo ha fatto saltare il suo chiosco, gli dà una mano. «Dicono che saremo risarciti. Ma chissà quanto ci vorrà – conclude Viktor –. Nel frattempo non posso vivere in queste condizioni e non ho altro posto dove andare. Così non mi resta che fare da me. Siamo abituati da queste parti».

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