giovedì 8 dicembre 2022
Le industrie belliche, controllate anche dai governi occidentali, non conoscono crisi. Fatturati giganteschi, sulla pelle di chi muore e dei poveri dimenticati
Le armi distruggono vite umane e beni, in Ucraina e in tanti altre zone del mondo. Ma garantiscono guadagni enormi ai ricchi e agli stati

Le armi distruggono vite umane e beni, in Ucraina e in tanti altre zone del mondo. Ma garantiscono guadagni enormi ai ricchi e agli stati - Reuters

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Cinquecento miliardi di dollari: è il fatturato realizzato l’anno scorso dai cento colossi principali dell’armamento mondiale secondo l’ultimo rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto per la pace svedese. In 365 giorni, l’incremento sfiora il 2%. E i dati avrebbero potuto essere ancora più opulenti se non avessero risentito degli ultimi strascichi della pandemia, che ha azzoppato scambi e logistica, impedendo la maggior parte delle fiere internazionali di morte, cenacolo di nuovi affari.

È come se i colossi delle armi non conoscessero la parola crisi. I loro guadagni crescono ininterrottamente da sette anni a questa parte. Equivalgono alla ricchezza nazionale che un Paese prospero come il Belgio riesce a mettere su in un anno. E il futuro si annuncia altrettanto roseo, perché la guerra in Ucraina sta gonfiando i bilanci militari in tutta Europa.

La sola Germania ha sbloccato 75 miliardi di euro per comprare nuove armi.

Italia, Francia, Polonia, Belgio, Olanda e Paesi Baltici hanno in animo di rinverdire tutto il parco terrestre, aereo e navale.

Una manna per i mercanti: diversamente dalle altre industrie (52,6%), le loro aziende vivono di commercio (80,4%). Alimentano i traffici internazionali di armi, che sono spesso una partita di giro, benefica anche per la bilancia dei pagamenti degli Stati in cui operano.

La nostra Leonardo, cresciuta del 15% in un anno, è controllata al 30,2% dal governo italiano. È il dodicesimo gruppo mondiale del settore armiero: le sue ricchezze dipendono per l’83% dai contratti bellici.

Nella vicina Francia, il discorso è identico: lo stato possiede l’11% di Airbus, il 18% di Safran, il 34,9% di Thales, il 62,3% di Naval Group, il 50,38% di TechicAtome e due seggi su sette nel comitato di sorveglianza di Knds, tutte aziende che hanno potenziato i ricavi l’anno scorso (15%). Complice la guerra, il clima si sta deteriorando.

La Banca europea per gli investimenti ha allentato le maglie. Dal 2017, consente finanziamenti di tecnologie duali, valevoli per il mondo civile ma integrabili nei sistemi d’arma.

Perfino il Pnrr è ambiguo: non vieta a priori di dirottare risorse sugli investimenti militari.

Nel pubblicare il suo rapporto annuale, l’Istituto per gli studi sulla pace di Stoccolma si mostra insolitamente prudente. Preconizza difficoltà venture per i giganti delle armi, per due motivi: la crisi dei semiconduttori e l’embargo sulla Russia, da sempre fornitore chiave di titanio, perno dell’industria aerospaziale.

Ma non tutti concordano. L’amministratore delegato di Lockheed Martin, numero uno mondiale delle armi, si mostra spavaldo: incassata una crescita del 2% quest’anno, prevede una progressione geometrica dei ricavi da qui al 2026. Guida il gruppo che produce gli F-35 e i lanciarazzi Himars.

La guerra ucraina è una gigantesca vetrina per i suoi prodotti: vantati da Kiev, gli Himars hanno il vento il poppa. Sbarcheranno presto in Polonia, in Romania, in Estonia, in Lettonia, in Australia, forse in Francia e riscuotono pure gli apprezzamenti ungheresi. Ogni razzo che sparano costa 150mila dollari. Agli affari non c’è limite.

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