Teheran, Pyongyang, Caracas: così Trump galvanizza i nemici
sabato 23 settembre 2017

La sede era il Palazzo di Vetro, l’oratore il presidente degli Stati Uniti d’America – Paese chiave nella fondazione delle Nazioni Unite. Le parole pronunciate, però, hanno prodotto un’alternanza di derisioni (Kim Joing-un è un «uomo missile»), minacce apocalittiche e l’etichettatura di altri Paesi come «perdenti». Il mondo ha preso nota e le reazioni non sono state costruttive. A ben vedere, l’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di Donald Trump, martedì scorso, non è stata certo la prima volta in cui un capo della Casa Bianca ha criticato altre nazioni (George W. Bush aveva usato lo stesso pulpito per unire in un «asse del male» Iran, Iraq e Corea del Nord). Ma il linguaggio usato dal tycoon ha implicitamente rinnegato la diplomazia, provocato i nemici degli Stati Uniti e inviato il segnale che gli interessi nazionali e l’immagine Usa contano molto di più della sicurezza mondiale e del rispetto dei diritti umani, in un clima di dominio del più forte, ma senza interferenze reciproche negli affari interni. Nel giro di pochi minuti, Trump ha minacciato di «distruggere totalmente la Corea del Nord», ha chiamato l’Iran «una dittatura corrotta le cui principali esportazioni sono la violenza, lo spargimento di sangue e il caos» e ha accusato il governo del Venezuela di «fallimento», alludendo a un possibile intervento militare americano. Le risposte non si sono fatte attendere, e non si sono limitate alla retorica.

L’Iran, dopo aver definito Trump «un ignorante che usa un linguaggio dell’odio che appartiene al medioevo», ieri, ha fatto sfilare in parata un nuovo e sofisticato missile balistico a medio raggio che può portare più testate allo stesso tempo. La Corea del Nord ha dato del pazzo al presidente Usa, poi ha promesso «il più grande test di una bomba all’idrogeno nel Pacifico». E Nicolas Maduro ha ribattuto che «Trump è il nuovo Hitler, non il presidente del mondo ... non è nemmeno in grado di gestire il proprio governo », poi ha richiamato le unità della riserva. A ben vedere, le osservazioni del capo della Casa Bianca non sono necessariamente delle bugie: i gruppi di diritti umani criticano da anni l’Iran per il suo sostegno del terrorismo, il Venezuela è scivolato in una dittatura e Pyongyang ha suscitato enormi preoccupazioni con i suoi test nucleari e lanci missilistici.

Ma le parole che il presidente Usa ha usato sono state percepite da più parti come «il discorso sbagliato, al momento sbagliato, al pubblico sbagliato», servito solo ad aumentare le tensioni globali e a fornire a tre Paesi osservati speciali della comunità internazionale l’opportunità e il diritto di rispondere alle critiche degli Stati Uniti e di ricevere ascolto. Anche se il contenuto delle critiche del tycoon non è del tutto errato, in sostanza, molti analisti Usa hanno paragonato i termini scelti dal magnate a quelli di un “bullo” che punta a intimidire gli avversari, non a cambiarne il comportamento. Non è passato inosservato, ad esempio, che il punto più forte del discorso di Trump – proprio all’Assemblea generale delle Nazioni Unite – sia stata la difesa della sovranità come l’elemento più importante dell’ordine globale. Una ripetuta affermazione dei diritti sovrani delle nazioni che manda ai governi repressivi il segnale che gli Stati Uniti non presteranno più attenzione alle loro violazioni dei diritti umani, purché le loro azioni non minaccino direttamente (come la Corea del Nord) o non mettano in cattiva luce (come il Venezuela nel “cortile di casa” degli Usa) gli Stati Uniti. Anche questo è un cambiamento significativo rispetto ai predecessori del repubblicano. Una prova? La reazione del ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov: «Gli Stati Uniti non imporranno nulla agli altri – ha detto dopo l’intervento di Trump –. È una dichiarazione benvenuta, che non abbiamo sentito da un leader americano da molto tempo».

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