sabato 13 ottobre 2018
Maria Zilioli, chirurgo pediatra in pensione, è partita alla volta di Arusha sostenuta dall’Ong Child Help: «Ora sono sempre più le donne che vogliono far curare i loro bambini»
La dottoressa Maria Zilioli con un piccolo paziente in braccio alla mamma

La dottoressa Maria Zilioli con un piccolo paziente in braccio alla mamma

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«Facevo il chirurgo pediatra a Novara...». Comincia così la storia di Maria Zilioli, partita otto anni fa per Arusha, in Tanzania, a curare una delle malattie più comuni e terribili in Africa: la spina bifida. «Arrivata alla pensione avevo molte domande in testa – racconta ad Avvenire la dottoressa –. Tutto è però diventato più chiaro dopo che ho conosciuto al meeting di Rimini Pierre Mertens, fondatore dell’organizzazione umanitaria Child Help».
Maria è ora uno dei rari pediatri specializzati nella cura della spina bifida nel nord della Tanzania. Insieme a una squadra di colleghi infermieri, la volontaria in pensione cura da anni questa malattia tra i neonati. «La spina bifida è una malformazione congenita causata principalmente alla denutrizione materna – spiega –. È una piaga che colpisce tra il 3 e il 15 per mille dei bambini e consiste in una mancata chiusura del canale midollare». Le conseguenze possono essere fatali. Nel 70 per cento dei casi, dopo la chiusura chirurgica del canale midollare, si instaura un idrocefalo, cioè un aumento di liquido nella scatola cranica. Una condizione che, spesso, porta alla morte. «Tali problematiche sono legate alla povertà di gran parte delle popolazioni africane – sottolinea la donna a capo del progetto sostenuto da Child help Italia –. Nei villaggi le donne incinta hanno una carenza di acido folico, una sostanza fondamentale per la buona riuscita di una gravidanza».
All’inizio è stato però necessario far conoscere alla gente che si era aperto questo nuovo servizio. Maria ha quindi girato tutta la provincia di Arusha, a volte con un piccolo velivolo Piper, così da incontrare i suoi futuri pazienti più rapidamente. «Mi trovavo spesso in un’atmosfera surreale – racconta la dottoressa –. Io parlavo inglese, un’infermiera traduceva nella lingua nazionale swahili, e una seconda infermiera traduceva nella lingua masai». Nonostante gli ostacoli iniziali nella comunicazione, sono ora sempre di più le donne che vogliono far curare i loro bambini, superando spesso i limiti della cultura e il rifiuto dei mariti.

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