lunedì 11 novembre 2019
Sánchez perde la scommessa: ora ha bisogno dei popolari. Vox raddoppia, è il terzo partito, recupero del Partido Popular, La formazione del governo resta un rebus
Spagna, socialisti senza maggioranza. Vola l'ultradestra
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Si sono compiute le peggiori previsioni della vigilia: la Spagna non esce dal labirinto dell’ingovernabilità dopo le seconde elezioni in poco più di sei mesi, le quarte in 4 anni, che segnano l’exploit senza precedenti dell’ultranazionalista Vox. Il Partito socialista del premier uscente, Pedro Sánchez, si conferma prima forza politica, ma arretrando da 123 a 120 seggi, più distante dalla maggioranza di 176 della Camera.

Sanchez aveva giocato d’azzardo, convocando le urne in chiave di secondo turno, dopo la vittoria relativa del 28 aprile, nella speranza di rafforzarsi ed emanciparsi dalla dipendenza, per governare, dagli indipendentisti catalani e dalle pretese di pari dignità dei “soci preferenziali” della sinistra radicale di Unidas Podemos, dal quale lo distanzia la rivalità con Pablo Iglesias.

Ma, uscito indebolito dalle urne, ha perso la scommessa. E anche la supremazia al Senato, la Camera alta con i poteri di applicazione dell’art. 155 in Catalogna. I Popolari di Pablo Casado, nella versione più moderata, recuperano mezzo milione dei 3,4 milioni di voti perduti dal 2016 e passano dai 66 scranni di aprile a 87. Ma sono incalzati - e superati in feudi storici come Murcia - da Vox, il partito xenofobo, anti-immigrati e anti-femminista di Santiago Abascal, il leader con la Smith & Wesson, che balza dal 10% di aprile e dal magro 6% alle europee di maggio al 14%, e raddoppia fino a 52 i suoi seggi. Con 3 milioni e 600mila voti, questa volta entra a cavallo alla conquista del Parlamento, con la ‘trumpificazione’ della politica. E si consolida come terza forza politica in Spagna, accorciando le distanze in Europa con la Lega di Salvini e Rassemblament National di Marine Le Pen, con Georgia Meloni i primi a congratularsi per il risultato dell’amigo matador.

“Oggi si è consolidata un’alternativa patriottica e sociale, che reclama l’unità nazionale in Catalogna, la trasformazione dello stato delle autonomie liberticida, la fine della dittatura progressista, l’innalzamento di frontiere contro l’immigrazione”, ha celebrato un euforico Abascal dal balcone della sede madrileña, sulle note dell’inno della Legione, fra bandiere franchiste e cori di ‘Viva España!”. L’attesa affermazione del partito nazional-populista, già sdoganato da Pp e dal liberale Ciudadanos come alleato di governo in Andalusia e Madrid, è frutto della crisi catalana, aggravata dalle proteste che hanno incendiato la Catalogna per la sentenza di dure condanne ai leader secessionisti.

Ma anche dovuta alla débâcle di Ciudadanos, che paga con un voto di castigo il ‘no’ a oltranza a un’intesa di governo centrista con i socialisti, auspicata da banche e moderati, che ad aprile era maggioritaria. Il partito di Albert Rivera crolla da 57 a 10 deputati e da prima forza in Catalogna scivola nell’irrilevanza, tanto che il segretario ha annunciato un congresso straordinario per “assumere responsabilità”.

Penalizzata anche la sinistra radicale di Unidas Podemos (UP), ferma a 35 seggi (-7 da aprile). Il leader col codino Pablo Iglesias, ha pagato l’intesa frustrata con il Psoe su un esecutivo di coalizione progressista. Ma anche la scissione della sinistra di Mas Pais, il nuovo partito fondato dall’ex n. 2 di Podemos, Iñigo Errejon, che non è andato oltre i 3 seggi.

In un Parlamento mai tanto frammentato, con 16 partiti politici che includono i piccoli regionalisti, un eventuale accordo di forze progressiste (Psoe, UP, Mas País ) somma 158 seggi, rispetto ai 152 del blocco di destra (Pp, Vox, Cs e il conservatore Navarra Suma). Per restare al palazzo della Moncloa, Sánchez dipenderebbe, dunque, sempre da un’intesa con Iglesias, tornato ieri sera a rivendicare poltrone in Consiglio dei ministri. E dai voti degli indipendentisti catalani, oltre che de altre forze regionaliste. I nazionalisti baschi del Pnv, passati da 6 a 7 scranni, si sono confermati disponibili. Ma, a complicare ulteriormente il sudoku della governabilità, è anche l’avanzata dell’indipendentismo in Catalogna, che si rafforza. JuntXSì dell’ex presidente catalano Puigdemont e del successore Torra, favorevoli alla linea secessionista oltranzista, passa da 7 a 8 seggi. Si attesta sui 13 la più pragmatica Esquerra repubblicana, perdendone due a favore dell’anticapitalista Cup, al suo esordio nel Parlamento nazionale, esclusivamente in funzione anti-sistema.

“Il mio impegno è che questa volta avremo un governo progressista, sì o sì”, ha promesso Sánchez, comparso dopo la mezzanotte sul balcone del quartiere generale socialista, in Calle Ferraz. E ha fatto appello alla “responsabilità e generosità” di tutti i partiti, “tranne quelli che seminano discorsi di odio e l’anti-democrazia”, ha detto, riferendosi a Vox. L’altra strada per uscire dal labirinto, per il leader socialista, è cercare ancora l’astensione tecnica del Pp e di Ciudadanos, perché gli consentano di governare in minoranza, per frenare l’avanzata dell’estrema destra.

Ma, per questo, andrebbero abbandonati i calcoli di parte nell’interesse generale. Un’altra possibilità, la grande coalizione alla tedesca con il Pp, è fuori discussione. “Gli interessi del Pp sono incompatibili con il progetto di Sanchez”, ha lasciato chiaro Pablo Casado, che non intende lasciare all’ultrà Abascal il monopolio dell’opposizione. Ma ha, poi, aggiunto che “il Pp eserciterà la sua responsabilità e la sua alternativa”. In ogni caso, un Sánchez bis nascerebbe su una fragile base parlamentare e a rischio di non durare fino alla prossima legge di bilancio.

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