martedì 24 luglio 2018
La lenta ripresa passa anche dall'«autostrada di Assad», la M5, anima del commercio con Aleppo e la Turchia
Un venditore di dolciumi a Damasco, il 15 luglio scorso: sullo sfondo un bulldozer rimuove le macerie (Ansa)

Un venditore di dolciumi a Damasco, il 15 luglio scorso: sullo sfondo un bulldozer rimuove le macerie (Ansa)

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Bab Touma, il quartiere cristiano di Damasco. Due simpatiche ragazze in un caffè all’ombra della Grande Moschea che fu a lungo basilica dedicata a San Giovanni Battista. Narghilè e telefonino. Una delle due musulmana e velata, l’altra cristiana. Tutt’intorno, ai tavoli, giovani che ridono e scherzano, famiglie con bambini che divorano dolci, qualche soldato in libera uscita. Al quarto viaggio nella Siria in guerra non posso che dichiararmi colpito. Nel 2015 a Damasco si dormiva poco, perché la notte risuonava di raffiche, tonfi di colpi di mortaio, esplosioni di missili. Muoversi per la città voleva dire valicare decine di posti di blocco con i soldati che pigiavano il pulsante per lanciare impulsi elettronici e far quindi scoppiare a distanza eventuali autobomba. Ancora questa primavera, prima che l’esercito riconquistasse l’area della Ghouta al prezzo che sappiamo, uscire da scuola o andare al mercato era un tiro a sorte con gli ordigni che piovevano dai quartieri ancora tenuti dai jihadisti.

L’immagine di cui sopra, quindi, è di quelle che possono fare effetto. Poco più in là, d’altra parte, c’è il grande e antico (fu costruito a metà Settecento) suq di Al Hamadiya, e anche lì la differenza si vede: scomparsi i controlli agli ingressi dove soldati armati di kalashnikov andavano alla ricerca di eventuali kamikaze, e traffici in lenta ma costante ripresa. Per capire lo spirito che oggi regna dentro Damasco, però, sarebbe meglio guardare a ciò che avviene fuori Damasco. In particolare lungo l’autostrada M5, quella che va dalla capitale ad Aleppo e che, allargando lo sguardo, collega la Siria a Sud con la Giordania e a Nord con la Turchia. Una dozzina di ore da Amman (capitale della Giordania) a Gaziantep (Turchia) passando appunto, in Siria, per Damasco, Homs, Hama e Aleppo. La guerra si è combattuta ovunque ma questa è la spina dorsale che Bashar al-Assad ha sempre cercato di difendere. Lungo questa direttrice quasi perfettamente retta si sono decise le sorti della Siria, in particolare dopo che, nel Natale del 2016, oppositori, jihadisti e ribelli vari sono stati costretti a mollare la presa su Aleppo. È una questione di economia: l’arteria vitale è questa e ora è riaperta anche al commercio internazionale con gli sbocchi in Giordania e in Turchia, preziosi per un Paese che da 7 anni è in guerra ed è sottoposto a embargo. Ma anche di strategia politica, perché a Ovest della M5, appena oltre le montagne, c’è il mare con le basi militari russe. Era idea comune, negli anni scorsi, che se la Siria fosse stata smembrata in diverse entità etnico-religiose (come il progetto del Califfato, finanziato dalle monarchie del Golfo Persico, in effetti lasciava immaginare), Assad e gli alawiti che si riconoscono nel suo potere avrebbero potuto asserragliarsi nella fascia costiera. Tutto questo ora pare superato. Resta l’importanza dell’autostrada, che infatti è stata la prima infrastruttura a ricevere le attenzioni del governo vittorioso. Fino a sei mesi fa, il solo tratto da Damasco ad Aleppo richiedeva otto-nove ore di viaggio. Lunghe deviazioni per evitare le zone pericolose, ripetute attese per superare i controlli della polizia e dell’esercito, rallentamenti nei frequenti tratti dove il manto stradale era disastrato dal passaggio dei carri armati e dei mezzi militari. Adesso in meno di 5 ore si fa tutto, i posti di blocco sono pochi e la strada è per tre quarti un biliardo. La percorrono ora, invece delle rare automobili di qualche tempo fa, lunghi convogli di camion e moltissimi autobus, segno che i commerci e gli spostamenti sono ripresi.

Tutto a posto, quindi? No, ovviamente. Aleppo, per esempio, è tuttora in ginocchio. Era una città di 4,6 milioni di abitanti con 1,3 milioni di operai. Adesso la popolazione è dimezzata e la struttura produttiva, che ne faceva la capitale industriale, è da ricostruire quasi da zero, dopo i 4 anni in cui i ribelli, insediati nella parte Est, hanno sistematicamente smontato e rivenduto in Turchia le attrezzature delle fabbriche. Homs, la città delle prime battaglie nel 2011, non sta meglio. Secondo Banca Mondiale, il 20% degli edifici della Siria è danneggiato o distrutto. Secondo l’Onu, meno di metà degli ospedali è in funzione. Secondo Staffan de Mistura, inviato speciale Onu, per la ricostruzione serviranno almeno 250 miliardi di dollari. Allora bisogna tornare alle due ragazze nel caffè di Damasco. Perché, per quanto sembri persino inspiegabile, i siriani mostrano già uno spirito da dopoguerra. Uno spirito fatto di orgoglio nazionale (l’idea, qui, è che non ci sia stata alcuna guerra civile ma un’aggressione esterna cui hanno collaborato elementi interni), di sollievo e, soprattutto, di grande voglia di riprendere a vivere. Anche godendosi i piccoli piaceri come quattro chiacchiere con un’amica. Se noi, in Occidente, ci proponiamo di «restare umani», da quelle parti la tensione è a «tornare umani» dopo tanti anni di vita disumana. E prima o poi anche i Paesi occidentali che hanno attaccato la Siria in nome dello slogan “Assad deve andarsene”, dovranno chiedersi se è davvero possibile abbandonare tra le macerie, in nome di una tattica politica che non ha funzionato e come altrove (Afghanistan, Iraq, Libia) ha prodotto disastri, un popolo che ha sofferto così tanto come quello siriano.

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