mercoledì 18 novembre 2020
Nessun controllo all’uscita dal campo di al-Hol: si tratta in prevalenza di vedove e orfani del Daesh che erano detenuti nella «prigione a cielo aperto» dei jihadisti in condizioni pietose
Molti i bambini costretti in prigionia: tra loro i cosiddetti «orfrani del Daesh»

Molti i bambini costretti in prigionia: tra loro i cosiddetti «orfrani del Daesh» - Ansa

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L’annuncio di inizio ottobre da parte della autorità curdo- siriane, è divenuto realtà. Circa 6mila civili siriani sono stati rimessi in libertà nell’ultimo mese dal famigerato campo profughi di al-Hol, nella Siria nord-orientale. Solo negli ultimi giorni, più di 500 prigionieri siriani sono stati liberati: fra loro molte donne e bambini provenienti da 120 famiglie originarie della provincia di Deir ez-Zor, regione a maggioranza araba che ha più volte manifestato insofferenza contro l’amministrazione provvisoria curda. Decine di donne, dopo un mese di attesa, hanno caricato i loro effetti personali sui camion, trascinandosi dietro anche polli e pecore. Unico ostacolo per varcare i cancelli del campo profughi vicino al confine con l’Iraq – la più grande prigione di affiliati al Daesh, “foreign fighter” e “spose del jihad” –, un’ispezione dei bagagli da parte delle forze di sicurezza curde. A differenza di precedenti liberazioni di massa, per entrare nella provincia di Hassaké non è stato necessario un accordo con le tribù arabe locali a cui appartengono i detenuti, ma solo mostrare al check-point i documenti di identità.

Lo scorso 4 ottobre le autorità curdosiriane avevano annunciato di esser pronte a liberare fino a 25mila civili siriani dal campo di al-Hol, dove ci sono anche più di 30mila iracheni e cir- ca 10mila di altre nazionalità. Secondo i curdi del Rojava information center, 17mila dei quasi 25mila siriani sono bambini: orfani di guerra o figli di “vedove del Califfato” esposti più di ogni altro al rischio di radicalizzazione.

Sempre a ottobre, le stesse autorità curdo-siriane avevano annunciato un’amnistia per migliaia di detenuti, membri di medio e basso rango del Daesh, prigionieri nei penitenziari del nord e del nord-est della Siria. L’amministrazione a guida curda ha più volte invitato i Paesi occidentali a riprendersi i propri cittadini, ma pochissimi sono stati rimpatriati, per lo più bambini, a volte con le loro madri. Questi prigionieri vengono considerati pericolosi per i legami con ex membri del Daesh, e soprattutto le nazioni occidentali sono restie a farli rimpatriare, considerandoli un pericolo per la sicurezza nazionale: le autorità curde, dopo l’accordo di Astana fra Russia e Turchia per la spartizione in zone di influenza del Nord della Siria, di fatto sono state estromesse da qualsiasi trattativa e hanno usato la liberazione dei prigionieri – un impegno molto oneroso – come arma di ricatto. Le condizioni nel campo comunque sono disastrose, con scarsa igiene e mancanza di sicurezza. Inoltre, i militanti del Daesh gestiscono ancora cellule dormienti nei deserti della Siria e dell’Iraq.

Una sopravvivenza di cellule estremistiche che raggiunge anche l’Iraq, il cui territorio per tre anni è stato sotto il dominio del Califfato. L’esercito iracheno ha infatti reso noto di aver «annientato » cellule del Daesh nella regione di Ninive dove sono stati «uccisi tre terroristi» del Daesh, e di aver distrutto «covi di terroristi annidati» nella regione nord-orientale di Diyala al confine con l’Iran.

La liberazione dei prigionieri da parte della autorità curde, dopo aver detenuto per anni gli ex combattenti del Daesh, oltre al rischio di una ripresa del radicalismo espone ora tutto il Nordest siriano al rischio di contagio da Covid-19: le Nazioni Unite hanno più volte denunciato le condizioni sanitarie estremamente precarie in cui ha vissuto per anni questa popolazione, senza che sia stata sottoposta a una seria indagine diagnostica.

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