mercoledì 18 novembre 2020
Nella ricca Sud Corea un operaio su tre non può lasciare il lavoro, nonostante l’età avanzata, per non finire in miseria E così si espone all’infezione La ricercatrice Lee:
Seul, in fabbrica gli ultra 65enni «sfidano» il Covid
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La condizione degli anziani è sicuramente tra i temi più dibattuti nei Paesi ad economia avanzata e ancor più oggi per i rischi connessi con la pandemia. C’è un “caso” che risalta però tra i 37 Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse) che raccoglie la maggioranza delle nazioni economicamente più progredite, ed è quello sudcoreano. Nel “Paese del calmo mattino” gli anziani fronteggiano in troppi casi un crepuscolo carico di difficoltà e spesso di disperazione e se in questi mesi sono stati la maggioranza delle vittime del Covid-19 anche all’esterno delle strutture ospedaliere o di ricovero, questo è stato pure conseguenza del loro disagio, della precarietà della loro condizione.

Anche delle ridotte possibilità di accesso agli strumenti di tracciamento e di allerta che tanta parte hanno avuto nel “successo” del Paese nel contrastare la diffusione epidemica. Oggi in Corea del Sud, con una maggiore incidenza nelle aree urbane dove in tanti erano immigrati per lavoro negli anni Sessanta e Settanta, circa il 60 per cento degli ultra 65enni devono provvedere da soli al proprio sostentamento e almeno il 30 per cento non può uscire dal mondo del lavoro per non cadere nella miseria. Diverse sono le ragioni di questo stato di cose che si è sviluppato in parallelo con l’esplodere del “miracolo coreano”, ma è reale il disagio per quella che Lee Ho-sun, studiosa delle problematiche sociali connesse all’età avanzata, indica come «generazione perduta» perché, nonostante abbia garantito alla nazione benessere e prestigio, è oggi costretta nella povertà o, in alternativa a impegnarsi senza prospettive in attività lavorative spesso ingrate. Una visione che contrasta brutalmente con la frenesia di Seul e una società ossessionata da gioventù, bellezza e benessere.

«Oggi in tanti vivono in miseria, vittime due volte di tempi duri: quelli della loro infanzia e quelli attuali», conferma la professoressa Lee. Non a caso, per una ricerca ufficiale, nel 2018 il 40 per cento dei 684mila coreani colpiti da depressione acuta ha più di 60 anni d’età e studi condotti anche nel tempo di pandemia hanno mostrato come il distanziamento sociale abbia reso ancora più evidenti i segnali di disagio che sono anche conseguenza di un sistema di protezione sociale precario. Le pensioni minime pubbliche, concesse a chi a 65 anni non abbia raggiunto attraverso regolare contribuzione una pensione equivalente a poco più di 500 euro (il 60 per cento dei pensionati), coprono con 200mila won (circa 150 euro al mese) al massimo il 20 per cento delle necessità individuali stimate e a percepirle sono quasi 5 milioni di anziani. Sempre che non abbiano figli, su cui altrimenti ricade la responsabilità del mantenimento e delle cure.

È così che in un Paese tra i più longevi in Asia, troppi anziani sono costretti a vivere non solo in povertà, ma anche in solitudine. Oggi sottoposti a un rischio più elevato dovendo bilanciare le proprie necessità immediate con un maggiore esposizione al contagio. «Nella mia esperienza quasi trentennale in Corea ho visto nascere nuove povertà, gente di strada, homeless, troppi anziani soli... Forse sulla linea di altre realtà del mondo moderno capitalista, ma non per questo meno penosa», segnala il missionario Oblato, padre Vincenzo Bordo. «Non si può non riconoscere che durante la pandemia la politica delle 3T (in inglese, Track, Test, Treaty, ovvero: ricerca, verifica e cura), associata all’adesione della popolazione alle necessità di autotutela e distanziamento, non ha reso necessarie quarantene ampie o prolungate», tuttavia chi già viveva ai margini ha visto crescere le difficoltà e ancor più anziani sono andati a bussare alle porte delle iniziative di assistenza pubbliche o delle organizzazioni filantropiche.

Così anche le iniziative benefiche avviate dal missionario e che si sono moltiplicate negli anni della sua permanenza coreana a partire dal centro di accoglienza diurna La Casa di Anna, non hanno chiuso i battenti. «Non ci siamo mai fermati – ricorda – in particolare con il nostro servizio mensa che ha continuato a distribuire centinaia di pasti ogni giorno, ma all’esterno, resistendo alle pressioni delle autorità per la chiusura. Perché ci sembrava decisivo non voltare le spalle, dato che un organismo indebolito è più facilmente vittima del virus».

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