martedì 21 giugno 2022
I volontari di Sov: «Abbiamo deciso di trasformare il nostro no alla guerra in aiuto a chi è stato portato nel Paese Sono famiglie lasciate al loro destino, messe ai margini»
Famiglie ucraine delle zone occupate deportate in Russia e in attesa di essere trasferite in qualche città remota

Famiglie ucraine delle zone occupate deportate in Russia e in attesa di essere trasferite in qualche città remota - Afp

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«Deportati», per gli ucraini; «messi in sicurezza» per i russi. Storie di vite spezzate dalla guerra, finite chissà dove, e come. Secondo le stime ufficiali del Centro nazionale di gestione della difesa della Federazione Russa gli ucraini trasferiti sul suolo russo sono 1,9 milioni, di questi oltre 300mila sono bambini.

Mikhail Mizintsev, responsabile di Mosca delle operazioni, ha spiegato all’agenzia Interfax che sono persone «evacuate da zone pericolose dell’Ucraina e del Donbass perché non succedesse loro nulla di male».

Diversa la versione di Kiev, secondo la quale si tratta di una vera e propria deportazione di massa per andare a ripopolare una nazione con un saldo demografico molto negativo.

Stando ai media di opposizione, che ormai operano solo sui social o dall’estero, il presidente Putin ha già autorizzato il ricollocamento di decine di migliaia di persone nelle aree più remote del Paese. Una tragedia umanitaria dove anche le organizzazioni internazionali ammesse a dare il loro contributo devono passare sotto il vaglio e il controllo delle autorità di Mosca.

Qualcuno, però, non dimentica il significato della parola «solidarietà », e ha trovato un modo alternativo di fare resistenza. Alcuni giovanissimi hanno dato vita a «Sov», un’associazione che opera in modo molto discreto e che aiuta «gli internati ucraini», come li chiamano loro, fornendo generi di prima necessità, e nei casi più fortunati anche assistenza per trovare una sistemazione dignitosa, fuori dai piani delle autorità russe.

La fondatrice, Veronika Timakina, è stata costretta a nascondersi per motivi di sicurezza. «Abbiamo iniziato a muoverci dall’inizio di maggio – spiega ad Avvenire Liesa, una delle principali anime di Sov –. Ci siamo resi conto che se avessimo continuato a protestare ci avrebbero arrestati tutti, così abbiamo deciso di trasformare il nostro no alla guerra in qualcos’altro: in aiuto agli ucraini arrivati sul territorio nazionale, persone che il più delle volte sono lasciate al loro destino, prive di tutto. Abbiamo lanciato un appello tramite i social e nei giorni successivi sono arrivate decine di adesioni da giovani provenienti da tutte le parti del Paese. Il secondo passo è stato lanciare una raccolta fondi e mettere insieme le forze per aiutare».

I centri di accoglienza temporanei organizzati dal Cremlino sono circa 9.500, sparsi sul territorio nazionale. Qui i volontari di Sov si recano portando generi di prima necessità: cibo, coperte vestiti. Tutto è utile per restituire a quelle vite, spesso sprovviste anche di un passaporto per scappare, un filo di dignità.

Si muovono con discrezione, contingentando gli interventi, perché sanno di essere controllati a vista dalla polizia e che nei vari campi hanno iniziato a fare domande su quelle presenze così giovani, tutte fra i 20 e i 30 anni, segno che in Russia è in atto anche una vera e propria scissione generazionale, dove i ragazzi del modello patriottico di Putin non vogliono sentire parlare, nonostante la pressione della propaganda, che si sta facendo sempre più pressante anche all’interno delle scuole.

«Grazie al denaro raccolto e alla rete di contatti – sottolinea Leisa – siamo anche riusciti a sistemare alcune famiglie in luoghi sicuri. Abbiamo iniziato a lavorare con organizzazioni in Georgia. Lì chi ha un passaporto per uscire sta provando a ricostruirsi una vita».

Eroi quotidiani, che devono anche fare i conti con il fatto che le forze rischiano di essere ancora più limitate. «Se ne sono andati molti di noi – conclude Leisa –. Chi è rimasto ha due possibilità: o accetta tutto questo o continua a combattere come si riesce»




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