giovedì 25 agosto 2022
L’offensiva dell’esercito birmano nel 2017 ha costretto centinaia di migliaia di profughi a fuggire in Bangladesh. Dove si trovano da allora. I loro racconti sono stati raccolti da Msf che li assiste
Cox's Bazar

Cox's Bazar - Ansa

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Il 24 agosto 2017 le forze armate del Myanmar lanciavano un’offensiva nello Stato occidentale di Rakhine (Arakan) destinata a cambiarne definitivamente la composizione etnica. Dopo cinque anni alle centinaia di migliaia di Rohingya fuggiti all’estero restano poche speranze di un rientro in quella che considerano la loro patria ma dalla quale le leggi in vigore, la pressione dei nazionalisti buddisti e gli interessi dei militari li escludono.

Anche la visita in Bangladesh dell’Alto Commissario per i Diritti umani, Michelle Bachelet, tra il 14 e il 17 agosto, non ha dato indicazioni su come sbloccare una situazione per i più disperata e senza prospettive con al centro il riconoscimento della cittadinanza bimana per i Rohingya.

L’uscita il 9 agosto del rapporto annuale del Meccanismo d’indagine indipendente sul Myanmar, creato nel 2018 dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani con base a Ginevra, ha confermato che «mentre i Rohingya continuano a esprimere il desiderio di un rientro sicuro e protetto in Myanmar, questo sarà molto difficile da attuare fino a quando non ci sarà la possibilità di punire le atrocità commesse contro di loro e portare davanti alla giustizia almeno i principali responsabili».

A confermare questa situazione è oggi anche Medici senza Frontiere (Msf) che ha diffuso le interviste esclusive a Rohingya profughi nell’area di Cox’s Bazar, in Bangladesh: si tratta di racconti che svelano solo la punta di un iceberg sulla condizione di centinaia di migliaia di sfollati nei campi: cinque anni fa erano 740mila e oggi non sono che cresciuti.

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Tayeba Begum, ha lasciato il Myanmar nel 2017 con i due gemelli di sei mesi e altri quattro figli. Ora vive in uno degli insediamenti più affollati. «Da anni non vedo mio figlio che vive in India, sfuggito all’arresto e alle torture dei militari, e la mia terra mi manca immensamente – dice –. Qui abbiamo un rifugio ma a parte questo non abbiamo molto altro per i nostri figli». Il 15enne Anwar ricorda ancora con chiarezza la fuga dal Myanmar cinque anni fa: «Siamo scappati dalle nostre case incendiate e siamo sopravvissuti, ma molti dei nostri parenti e vicini non ce l’hanno fatta», ricorda. «Ci sono voluti 12 giorni di cammino per raggiungere il Bangladesh. Il mio sogno era di diventare un medico per aiutare gli altri, ma qui ai profughi è garantita soltanto l’istruzione primaria. Tuttavia cerco di essere felice, prendo ogni occasione per imparare e per incontrare i miei amici, ma spesso quando torno dalle lezioni alla sera mi sento insicuro e mio padre non riesce a guadagnare a sufficienza per la famiglia».

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Il 25enne Nabi Ullah è fuggito in Bangladesh con la famiglia. Oggi sposato, cerca di individuare una prospettiva di rientro. « Fortunosamente sono riuscito a fuggire, ma ho perso i genitori e i fratelli. Oggi vivo con mio figlio, nato qui nell’ospedale di Msf, e due figlie nate in Myanmar. Mia moglie è nuovamente incinta».

La precarietà della vita nei campi è un assillo costante, come ricorda il 45enne Hashimullah: «Mi trovo qui da cinque anni e due anni fa ho rischiato per una patologia coronarica. Curato all’ospedale di Msf sono riuscito a superare la crisi, ma le malattie sono una costante nei campi, anche perché i nostri rifugi sono gli stessi, provvisori, dall’inizio. Avemmo bisogno di materiale per migliorarli ma è difficile da trovare, anche per le restrizioni al movimento che sono state via via imposte».

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Razi (non il vero nome, per motivi di sicurezza) era un dipendente pubblico in Myanmar, fino a quando è stata individuata la sua appartenenza Rohingya ed è stato costretto alla fuga in Bangladesh. «Quando siano arrivati eravamo pieni di speranza ma ora ci sentiamo bloccati qui, la vita è diventata difficile e ovunque vada sono perquisito dalle guardie, non posso nemmeno visitare i miei figli che vivono in campi vicini. Ricevo cure mediche per il diabete e per l’alta pressione ma non ci sono trattamenti disponibili per la mia malattia al fegato. Sono vecchio e morirò presto, mi chiedo se riuscirò mai a rivedere la mia terra».

Da sapere
Eredi di migrazioni in parte spontanee e in parte incentivate dai britannici dall’Est dell’India alla Birmania durante l’epoca coloniale, gli islamici Rohingya si stima fossero due milioni prima dell’ultima ondata persecutoria. La loro presunta “estraneità” alla Birmania Myanmar è stata pretesto per l’esclusione negli anni Ottanta dalla lista delle etnie riconosciute e per una discriminazione della maggioranza birmana e buddhista.


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