martedì 17 gennaio 2023
Aleskey è stato interrogato dai russi a Skadovsk, nella parte occupata dell’oblast di Kherson. «Ne sono uscito vivo, gli altri non so»
Aleskey Shurepov

Aleskey Shurepov - Reuters

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In una delle camere delle torture Aleskey Shurepov è stato rinchiuso. «Ringrazio il cielo che a me è andata bene», racconta. Era un seminterrato dove «potevi trovarti all’inferno», confida. A lui è accaduto nella cittadina dove viveva: Skadovsk. È ancora nelle mani dell’esercito russo dall’inizio di marzo. Porto affacciato sul mar Nero nel sud-est dell’Ucraina, località di villeggiatura, 17mila abitanti prima della guerra, rientra in quella parte della regione di Kherson occupata dai soldati di Mosca.

A novembre Aleskey è riuscito a uscire dal territorio «ostaggio dei russi», come lui lo definisce. Con la moglie, i figli e la suocera, si è rifugiato a Kiev dove è diventato volontario di Caritas-Spes. E accompagna i convogli di aiuti umanitari che fanno la spola fra la capitale e Kherson. «Conosco il capoluogo come le mie tasche. È qui che sono nati due dei miei tre figli», sottolinea mentre scarica i bancali di alimenti per chi è rimasto nella città fantasma. È un gigante buono Aleskey. Non è un caso che a Skadovsk avesse aperto da una decina di anni un centro di riabilitazione per i bambini scommettendo sulla delfino-terapia. «Sa, la cittadina è storicamente considerata un “sanatorio” per i ragazzi: il mare e il clima sono i nostri punti di forza – spiega –. Ne avevo tre di delfini. E con loro i piccoli giocavano nella piscina dove facevano gli esercizi». Subito chiusa con l’arrivo del nemico che è approdato dalla Crimea. «Ci sono stati mesi in cui non potevamo neppure uscire di casa.

Mi hanno consentito solo di dare da mangiare ai delfini ». Ma forse proprio perché lui era un volto ben conosciuto dalla comunità locale è finito nella lista nera dei servizi di sicurezza russi. « Nelle prime settimane di occupazione qualcuno deve aver fatto il mio nome», sospetta. « Più volte i militari russi hanno fatto irruzione dove abitavo. Volevano sapere di tutto: se parlassi russo o ucraino; che cosa pensassi della loro presenza; quale sensazione avessero le persone».

Poi un giorno l’hanno prelevato. « E mi sono trovato in una di quelle stanze che hanno un unico scopo: estorcerti una confessione. Soprattutto di ciò che non hai mai fatto». E racconta: «I russi ne avevano create in due luoghi diversi della città: nel “campus giovani” dove c’era anche il loro quartier generale; e nell’ufficio del procuratore. I locali scelti erano nel sottosuolo in modo che nessuno potesse sentire alcunché ». Appena isolato fra le quattro mura da incubo, gli occupanti si sono impossessati del suo cellulare. « Hanno letto tutti i nomi della rubrica. Di ciascuno volevano informazioni, soprattutto sulle idee politiche ». Una pausa. Il pensiero che torna là, in quello spazio riempito dalla paura, dagli ordini impartiti con violenza alle minacce alla famiglia. Ore interminabili di torture psicologiche. « Io ne sono uscito vivo. Ho amici che sono stati portati lì e nessuno sa che fine abbiano fatto». Forse uccisi. Forse deportati in Russia.

«E posso affermare che molti sono stati segregati per cinque o sei giorni senza mangiare e bere. Se ti interrogano dopo un supplizio del genere, puoi ammettere qualsiasi cosa». Le giornate in una terra ancora prigioniera sono segnate dal terrore, fa sapere Aleskey. «Tutto viene tenuto sotto controllo. Ti senti oppresso. Gli occupanti continuavano a ripetere che si può restare solo con il passaporto russo. Poi ci hanno vietato di andare in spiaggia perché hanno trasformato il litorale in un poligono per le esercitazioni militari. Hanno imposto come unica moneta il rublo speculando in maniera vergognosa sul cambio: “Un rublo equivale una grivnia”, hanno stabilito, anche se la nostra moneta vale quasi il doppio.

A maggio hanno bloccato le compagnie telefoniche ucraine e Internet con i gestori stranieri: di fatto si poteva navigare solo passando dalla Russia e quindi tutto veniva tracciato. A giugno hanno obbligato le aziende a tenere i registri solo in russo e a pagare i dipendenti unicamente in rubli, pena la requisizione da parte dello Stato. E prima che Kherson venisse liberata a novembre e l’esercito russo si ritirasse, hanno trasferito i collaborazionisti della città da noi requisendo le case della gente». Ed è una ferita aperta quella di chi ha scelto di schierarsi con le truppe di occupazione. «Alcuni lo hanno fatto perché hanno nostalgia dell’Urss. Altri perché hanno problemi con la legge e sperano in un’amnistia».

E Aleskey conferma che il referendum russo di fine settembre per l’annessione è stato una farsa. « Nessuno voleva votare. Sono state portate “comparse” dalla Crimea per far vedere le code ai seggi. E ogni scheda era visionata prima di essere messa nell’urna». Tornerà a Skadovsk? «Per adesso vado negli Stati Uniti con la famiglia. Per due anni le autorità americane concedono visti d’ingresso rapidi e facilitati a chi lascia l’Ucraina. Vivrò a Filadelfia. Ancora è troppo presto per dire se la mia vita sarà qui o in un altro continente».

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