mercoledì 6 maggio 2015
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«Nonostante i nostri sensi ci dicano che non c’è più speranza e che Aleppo non avrà un domani, con gli occhi della fede continuiamo a vedere una salvezza per il nostro popolo. Continuiamo a sperare che, là dove gli uomini falliscono nella ricerca della pace, il Signore Risorto riuscirà. Noi saremo lì fino all’ultimo, punto di riferimento per i nostri e forse anche per gli altri. Non possiamo permetterci di lasciarli, saremo pastori finché rimarrà un’ultima pecorella. Fino a dare il sangue». Padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, francescano siriano di Damasco, da novembre 2014 è parroco di San Francesco di Assisi ad Aleppo, la più grande parrocchia di rito latino di Siria.Intende dire che non esclude il martirio?È la nostra missione. Già duemila francescani di Terra Santa hanno perso la vita, forse diventeranno duemila e uno (sorride, ndr) purché questo sangue porti frutto. Aleppo è diventata un ricettacolo di pazzi assetati di sangue che vi arrivano per costruire lo Stato islamico perfetto. Nell’amarezza di non avere un interlocutore, consideriamo questi gruppi, che bombardano i civili, comunque come nostri fratelli. Preghiamo per loro e li perdoniamo: non sanno quello che fanno.Qual è la situazione del suo quartiere?Al mio arrivo ho trovato una chiesa e un convento ben organizzati, ma per le strade è orribile, sembra la Polonia della II Guerra mondiale: edifici distrutti, l’ombra della morte ovunque. L’elettricità c’è un’ora al giorno, l’acqua manca anche per settimane, le strade dopo le 17 si svuotano, la gente si chiude in casa, tra rumori di bombe e spari.Chi controlla militarmente la sua zona?Noi siamo nel quartiere di Azizìeh, dov’è l’esercito regolare di Damasco. La ferocia aumenta da un giorno all’altro. Non c’è solo il tentativo di invadere il quartiere, ma anche lanci indiscriminati di bombole di gas, “regali di morte” dal cielo. Lanci sporadici, ma fanno danni terribili. Non sono azioni di un gruppo che voglia conquistare un’area, perché bombole e cannonate piovono sulla popolazione inerme. Il culmine lo abbiamo subito dopo la Pasqua latina: dal 5 e 6 aprile è cominciata una fase di terrore da parte di gruppi jihadisti. Hanno bombardato piazza Farhàt, dove c’è la curia vescovile e la casa di cura di San Vincenzo De Paoli. Lunedì, martedì e mercoledì hanno fatto piazza pulita e distrutto completamente una chiesa. Abbiamo evacuato la curia, l’archivio e gli anziani della casa di cura. Poi hanno intensificato il tiro con 10 missili Grad, il venerdì dopo la Settimana Santa, Venerdì Santo per gli ortodossi. Lanci precisi che non hanno toccato la sede dei servizi segreti, possibile obiettivo militare, ma gli edifici vicini. Un terrore mai provato.Avete rapporti con le opposizioni?Come cristiani abbiamo sempre steso la mano a tutti, aperti al dialogo, anche con i gruppi armati, ma visti gli effetti degli attacchi su anziani e bambini, i corpi sotto le macerie, i funerali di intere famiglie, devo dire con tristezza che sono terroristi. Non è immaginabile il dialogo con questa gente, che non so da dove venga. Se lanciano missili contro i civili, cosa faranno se riusciranno ad arrivare da noi? È stato il segnale chiaro di un futuro oscuro. Gruppi vicini all’Is, gruppi filo-al Qaeda: facce della stessa medaglia. Non si può più parlare di gruppi di opposizione. La notte tra il 10 e l’11 aprile è stato il nostro 11 settembre, in una zona al 99 per cento di cristiani di origine armena, alla vigilia del centenario del genocidio armeno. Violenze contro i civili, particolarmente contro i cristiani.  Come è stata possibile una guerra settaria dopo decenni di convivenza?Mani esterne interferiscono per esasperare le differenze. Da bambino giocavo con i miei vicini sunniti, alauiti, sciiti, chiamavo «mamma» le altre donne e si prendeva il caffè assieme sul pianerottolo. Ancora a Pasqua sono venuti da noi tanti religiosi musulmani per farci gli auguri. Nel cuore della gente c’è terrore, ma anche la volontà di continuare a vivere da fratelli. Ora l’unica speranza è pregare. Siamo in una fase cruciale: o si ferma questo processo, o si combatterà fino alla morte dell’ultimo cittadino di Aleppo. La gente teme di dover fuggire di notte come a Ninive, coi soli vestiti addosso.
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