martedì 23 febbraio 2021
In due anni l’Onu stima che solo qui, nel Nord Kivu, due milioni di civili siano dovuti fuggire dalle violenze delle milizie armate. Nel conflitto 9 nazioni e 25 milizie, 5 milioni i morti
Soldati della missione Onu in Congo nella zona dove è avvenuto l'attacco mortale

Soldati della missione Onu in Congo nella zona dove è avvenuto l'attacco mortale - Ansa / Afp

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Come echi di guerre lontane troppo presto sepolte dai chilometri e dall’indifferenza, i colpi sordi che squarciano il cielo e la bellezza del parco Virunga tornano a scuotere un mondo che quei conflitti e quelle verdi colline aveva da tempo dimenticato. Perché se negli anni Novanta, reduce dall’epocale fallimento del genocidio ruandese, la comunità internazionale aveva per un momento rivolto lo sguardo verso la cosiddetta “guerra mondiale africana” (nove Stati coinvolti, venticinque milizie armate, oltre 5 milioni di morti), negli ultimi due decenni un buco nero di disinteresse ha inghiottito il destino della Repubblica democratica del Congo, diventata, da quella guerra in poi, ricco campo di conquista.

La polverosa strada tra Goma e Rutshuru su cui hanno trovato la morte l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista, nella regione del Nord Kivu, attraversa verdissime vallate in un quadrante orientale totalmente instabile. Da qui la capitale congolese Kinshasa dista 2.500 chilometri, un’enormità che segna anche una distanza politica. Perché il governo centrale, di cui il presidente Félix Tshisekedi ha appena cambiato il premier, nominando l’ex capo della compagnia mineraria statale Sama Lukonde Kyenge, qui conta poco o nulla.


Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci
sono caduti in un’imboscata sulla strada verso Rutshuru.
Morto anche l’autista Mustapha Milambo
Kinshasa accusa i ribelli hutu delle milizie Fdlr

Dominano le milizie hutu Fdlr (accusate dell’imboscata di ieri dal governo congolese), cento altri gruppi armati e le truppe che ancora sconfinano dal vicino Ruanda, mentre già cresce l’influenza di Adf/Iscap, gli uomini dello Stato islamico nell’Africa centrale. Un territorio ricco di risorse naturali – dove il cobalto e il coltan, il minerale indispensabile per i nostri smartphone, guidano gli interessi più del potere politico – è alla mercé di armi e sopraffazione.

Che a sparare ieri sia stato un gruppo di miliziani o una banda di contrabbandieri fa, purtroppo, poco differenza. Perché miliziani e contrabbandieri qui si confondono quotidianamente, scambiandosi i ruoli a seconda della stagione, in una guerra dopo la guerra che parla il linguaggio crudo dei conflitti: traffici illeciti, villaggi saccheggiati, reclutamento di bambini, stupri come arma, "tasse" imposte ai civili con la forza. Gli hutu ruandesi che nel ’94 oltrepassarono la frontiera dopo aver massacrato i tutsi, formando le cosiddette Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), sono tra le formazioni più attive, ma certo non le sole.

L’esercito di Kigali ha più volte sconfinato nel tentativo di stanarli, anche attraverso bande tutsi, infiammando ancora di più la regione e accusando al contempo l’Uganda di sostenere la milizia. Di certo c’è che tra le fila delle Fdlr si contano oggi anche molti congolesi e che la popolazione del Kivu ha spesso accusato anche le truppe di Kinshasa di compiere violenze sui civili. Le ragioni si confondono insomma insieme ai ruoli, laddove regna la violenza. «Tutto fa pensare che il piano di destabilizzazione e di balcanizzazione del Paese stia continuando, orchestrato esternamente con la complicità di alcuni dei nostri compatrioti», hanno denunciato lucidamente i vescovi congolesi.

Vecchi “brand” di gruppi armati storici trovano nel frattempo nuova linfa. È il caso delle Forze democratiche alleate (Adf), nate nel ’95 per mano di congolesi ed esponenti salafiti ugandesi e che sfruttano i monti del Ruwenzori come base per compiere incursioni nel Nord Kivu e nell’Ituri. Tramortite negli scorsi anni dagli eserciti locali, sono tornate protagoniste di attacchi sul campo grazie alla loro affiliazione con l’Iscap, la provincia dello Stato islamico nell’Africa centrale, ennesima variabile di una delle aree più instabili nel mondo. Niente, al momento, può fare escludere che ad agire ieri contro il convoglio dell’Onu non siano stati proprio i suoi uomini. Non c’è una rivendicazione, ma un’azione dall’eco mediatica tanto vasta rientra perfettamente nella strategia jihadista.

Certo è, sottolineano gli analisti, che nessuna milizia della regione si era mai spinta ad attaccare un obiettivo di così alto valore politico e così ben protetto e scortato. Il governo di Kinshasa, da parte sua, punta il dito contro le Fdlr hutu. Un anno fa, di questi tempi, il gruppo ruandese condannava un presunto accordo tra Kinshasa e Kigali per inseguire i miliziani. E criticava l’atteggiamento «passivo» dei caschi blu della Missione Onu Monusco nel proteggere «i rifugiati ruandesi minacciati di sterminio in Congo». Miliziani che si definiscono rifugiati, mentre in due anni l’Onu stima che solo qui nel Nord Kivu due milioni di civili siano dovuti scappare per non soccombere davanti ai gruppi armati. C’era una volta la guerra mondiale africana. E a ben guardare, purtroppo, sta ancora tutta lì.

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