giovedì 26 maggio 2022
Medico di famiglia a Gostomel, alla periferia di Kiev: rimasta l’unica nella città si è trasformata in chirurgo. «Ho improvvisato una clinica in casa, mio marito raccoglieva i feriti con l’ambulanza»
La dottoressa Olena Yuzvak (a destra) insieme a due mamme con i bimbi che assiste a Gostomel

La dottoressa Olena Yuzvak (a destra) insieme a due mamme con i bimbi che assiste a Gostomel - Fb

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La guerra è imprevedibile come le sue conseguenze. Parola dei due esperti strategici Julian Lindlay-France e Yves Boyer che hanno dedicato un omonimo libro a dimostrarlo. La dottoressa Olena Yuzvak, medico generico, non ha letto il saggio eppure non ha dubbi al riguardo. Il conflitto che ha divorato Gostomel, una cinquantina di chilometri ad ovest di Kiev, l’ha trasformata, da un giorno all’altro, in chirurgo. «Non avevo altra scelta, non era rimasto nessun altro collega», racconta la dottoressa nelle pause tra un appuntamento e l’altro al punto di primo soccorso. Dal ritiro dei militari russi, il 31 marzo, l’unico centro sanitario della cittadina ha dovuto moltiplicare le attività per far fronte alle richieste.


L’occupazione russa della cittadina è finita il 31 marzo
Dal giorno dopo, Medici senza frontiere
ha avviato un progetto per curare
i traumi dei superstiti. Tra i più gravi,
quelli degli «ostaggi di guerra»
Almeno 300 sono stati rapiti
nella zona: solo 15, finora, sono stati liberati

Gran parte dei ventimila abitanti – fuggiti in massa durante i bombardamenti di fine febbraio e la successiva occupazione – cominciano a rientrare. Dei venti medici in servizio prima dell’attacco, però, solo otto sono tornati al lavoro. Molti si trovano in altre città del Paese o all’estero. Olena, dunque, è costretta a una quotidiana gincana tra pratiche amministrative, riunioni, esami, consulenze. Si ferma giusto il tempo per una tazza di tè e poi riparte. Non sembra, però, affannata: le quattro settimane in cui il sobborgo è rimasto sotto il gioco di Mosca, l’hanno tragicamente temprata. «Il 24 febbraio sono venuta in clinica normalmente. Non pensavo ci avrebbero invaso davvero. Poi ho sentito gli aerei...».

Chi ha potuto, personale sanitario incluso, è fuggito. Due giorni dopo, Gostomel è stata martellata dal fuoco delle divisioni del Cremlino, come testimoniano le cicatrici sull’asfalto, i fori di proiettili ovunque, le file di palazzi sventrati. «Al centro si sono presentati quaranta feriti. Non sapevo chi curare per primo. E molte persone erano sotto le macerie. Non potevo muovermi per andarli a prendere e non c’era nessuno a cui chiedere. Allora ho detto a mio marito, che nella vita fa il poliziotto: “Guida tu l’ambulanza e portali qui”». Nel giro di tre giorni, però, il "qui" è diventato troppo pericoloso. «Il centro è sulla strada. Con mio marito abbiamo preso tutte le medicine e le attrezzature possibili e abbiamo improvvisato una clinica nel nostro appartamento. Ogni giorno, si presentavano in dieci o venti con ogni tipo di problema: dallo sbalzo di pressione alla polmonite. Poi c’erano i corpi lacerati dagli ordigni. Non prendevo in mano un bisturi dai tempi dell’università ma non avevo altra scelta. E così ho operato. Alla fine, ho perso un solo paziente. Mi è morto fra le braccia». A dare una mano a Olena, Ludimila Bodarenko, unica farmacista rimasta, che si è occupata – anche lei da casa – di tenere i farmaci nascosti e di distribuirli alle persone.

«Il collegamento con Kiev era interrotto. Abbiamo dovuto farci bastare quel che avevamo – dice –. Le medicine per il cuore e per il diabete sono finite quasi subito e ho dovuto inventarmi come sostituirle. Poi sono finiti i farmaci oncologici ed è stata davvero dura». «E non è finita. Siamo nella fase due dell’emergenza». Quella più lunga. Mentre le ferite dei corpi iniziano a cicatrizzarsi, gli spiriti dei sopravvissuti sono in frantumi. «Per cercare di ricomporli ci vorranno due anni», spiega Yulia Korz, psichiatra di Kiev, reclutata da Medici senza frontiere (Msf) per curare le lacerazioni invisibili del conflitto dei residenti dei sobborghi della capitale. Le più difficili da guarire.

Nei primi giorni di aprile, quanti erano rimasti a Gostomel – meno di mille – erano tanto terrorizzati da rifiutarsi di uscire dagli scantinati. «Poi, piano piano, si sono convinti. Ora, ogni giorno, vengono in sei per le sedute vere e proprie e una decina per le consultazioni più brevi. In gran parte danno più di cinquant’anni. I sintomi tipici del disturbo post-traumatico: insonnia, incubi, nervosismo, attacchi d’ansia. In un primo tempo erano convinti di avere una malattia fisica, ci è voluto un po’ per convincerli ad accettare la terapia», sottolinea la specialista che riceve al centro medico di Gostomel, al cui personale Msf offre supporto.
Tra i più riluttanti ci sono gli “ostaggi” di guerra. I dati ufficiali ancora non ci sono. Dalle testimonianze raccolte sul campo, però, risulta che almeno trecento civili sono stati rapiti dai militari di Mosca e portati in prigioni russe per essere scambiate con i propri soldati nelle mani degli ucraini. Per quindici di loro, la trattativa è andata a buon fine. Degli altri non si sa più nulla. E gli scomparsi potrebbero essere molti di più. In ogni cittadina o villaggio ad ovest della capitale, i superstiti raccontano dei sequestri.

Da Gostomel – affermano fonti ben informate – 1.500 persone sono state caricate su un bus e condotte in Bielorussia. Come rifugiati, secondo la narrativa del Cremlino. Ventiquattro cittadini, invece, sono stati presi come prigionieri veri e propri. Quattro di loro, tre uomini e una donna tra i 40 e i 50 anni, sono tornati a casa due settimane fa. E sono assistiti da Malcom Hugo, esperto di Msf.

«Alcuni sono stati incarcerati per quattro altri per sei settimane. Ci hanno raccontato di essere stati a Kursk e Berdsk e di essere stati scambiati in Crimea. Hanno accennato ad abusi e vessazioni. Prima di dire l’intera storia devono acquisire fiducia. E ci vorrà tempo, sono ancora molto traumatizzati», afferma Hugo, veterano dell’organizzazione premio Nobel, dopo anni di missione da Haiti all’Iraq. «Siamo appena all’inizio – aggiunge –. Per prima cosa, cerchiamo di identificare quanti hanno subito esperienze traumatiche. È un lavoro lento, basato principalmente sul passaparola».

Con un sistema di cliniche mobili, il personale di Msf può raggiungere anche i villaggi intorno a Gostomel, come Gorianka e Hozera. «Incontriamo le persone, facciamo degli eventi nelle scuole». Pian piano, frammenti di testimonianze iniziano ad emergere. Il quadro, però, è drammaticamente incompleto. La storia dell’occupazione russa della provincia di Kiev deve ancora essere scritta.

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