sabato 7 aprile 2012
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Matteo, 2 anni, toscano, ha il cuore che fa le bizze ma la sua storia è a lieto fine perché è nato in Italia: una semplice operazione e la settimana dopo correrà sui prati. Julian, 3 anni, peruviano, è sempre più stanco, non ha più la forza per tenere le palpebre aperte. Anche il suo cuore fa le bizze, ma per lui non c’è speranza. Perché è nato in Perù. Sono 5 milioni i bambini cardiopatici nel mondo, ne nascono un milione ogni anno e, di questi, 800mila sono destinati a non farcela, non perché più gravi di altri ma perché più poveri, nati nei Paesi in via di sviluppo, si dice, ma questo sviluppo non arriva mai...«Non è giusto». Sono queste tre parole a fare da colonna sonora alla vita e alla carriera di Alessandro Frigiola, primario di cardiochirurgia pediatrica all’Irccs di San Donato Milanese e presidente-fondatore dell’associazione Bambini cardiopatici nel mondo, giunta ormai alle soglie del ventennio. È l’uomo che, seguito da 150 colleghi dei più avanzati ospedali pediatrici del mondo, ha già fatto ripartire 1.904 piccoli cuori in 26 Paesi, ha guidato oltre 280 missioni operatorie, ha formato 282 medici stranieri...«Non è giusto», si era detto una prima volta nel 1972, quarant’anni fa, quando seguiva un training in uno dei migliori ospedali francesi, «e dei 50 neonati operati solo tre superarono l’intervento. Quanto sconforto! – ricorda oggi – Allora il problema delle cardiopatie congenite sembrava senza soluzione anche per i Paesi ricchi. Poi le cose cambiarono e attualmente la soglia di mortalità è scesa sotto il 5%. Ma nei Paesi in via di sviluppo è tuttora vicina al 90%». Il secondo forte richiamo si è fatto sentire dieci anni dopo, quando il medico si trovava in Vietnam: «Mi sono reso conto che quello che sapevo fare bene, ovvero operare praticamente tutti i tipi di patologie cardiache, lì non aveva alcun senso, vedevo morire bambini malati di cuore ed ero del tutto impotente, quello che in Italia era realtà laggiù restava fantascienza per la mancanza totale di strutture e di medici». Ad Hanoi ci sono bambini che muoiono e lui saprebbe salvarli, e la domanda si fa tormento: si può lasciar morire un bambino che potrebbe essere salvato? «Mi risposi di no, e da lì partì l’avventura...». Dieci anni dopo, nel 1993, è nata l’Associazione, fondata insieme alla professoressa Silvia Cirri, responsabile di Terapia intensiva all’Istituto clinico Sant’Ambrogio di Milano. Si comincia in Egitto, poi in Siria, Camerun, Perù, Paraguay, Kossovo, India, Marocco, Brasile, Senegal, Cina, Iraq, Yemen, Romania, Mali, Repubblica Dominicana... Ogni missione dura una settimana, durante la quale si opera e si visita senza sosta, anche 250 bambini per volta, e si valuta chi deve essere operato d’urgenza: «La mia fede cristiana e la mia etica di medico mi hanno sempre fatto pensare che il mio dovere sia di aiutare chi ha bisogno, chiunque – sostiene Frigiola –. Che senso avrebbe la vita se non dessi agli altri la mia esperienza? Tutto, anche il mio talento, sarebbe privo di significato. In quindici Paesi del mondo i cardiochirurghi che io ho formato sono i migliori e questa per me è la massima soddisfazione: ho saputo trasmettere e, quando io non ci sarò più, altri salveranno nuove vite. Il vero fallimento? Morire senza aver insegnato nulla...». Tre infatti sono i "comandamenti" che guidano l’associazione: «Primo, fare il medico. Sembra un’ovvietà, ma non lo è – spiega –. Lo scopo originario della professione medica è portare sollievo ai malati e alle famiglie, e oggi più che mai è necessario tener fermo il timone sulle origini della nostra missione». Secondo, fare il maestro: «Ovunque siamo andati, oltre a costruire le strutture dove non c’erano, a dotarle di reparti di cardiochirurgia e terapia intensiva dove già c’erano, abbiamo formato cardiologi, chirurghi, anestesisti, infermieri e tecnici, in modo che oggi possano andare avanti da soli e ai massimi livelli». Terzo, il "non mollare mai", una lezione che Frigiola ha imparato 40 anni fa a Marsiglia, quando ancora si stava specializzando e collaborò all’operazione di Hamadou, algerino, 4 anni e una gravissima patologia: «L’intervento durò otto ore. Alla fine il cuore non ripartiva e dovemmo fargli due ore di massaggio cardiaco, ma niente. Finché il chirurgo disse basta e gettò via i guanti. Io e l’anestesista Jean Pierre abbiamo insistito per altre due ore e di colpo il cuore ha ripreso a battere. Due giorni dopo il bambino zampettava in corridoio. Da allora non me lo sono scordato: mai lasciar perdere una vita».Ci vorrebbe un libro per raccontare di ospedali che nascono dal nulla, di nastri tagliati, di camerate fatiscenti che in pochi anni diventano sale operatorie superattrezzate, di giovani africani, asiatici, latino americani o est europei diventati chirurgi, o per dare una storia ai 1.904 bambini salvati dai 150 medici volontari, che le loro ferie le passano chinati a rianimare i cuori più fragili del mondo. Al loro arrivo, i media locali danno la notizia e le popolazioni accorrono con i bimbi in braccio. Sulla scrivania di Frigiola, giornali scritti in tutti i caratteri narrano di "miracoli" della scienza, mentre le foto mostrano piccoli pazienti dopo il risveglio e genitori a mani giunte per un grazie che non ha parole. «Mentre in Yemen operavamo, Al Jazeera trasmetteva in diretta gli interventi», sorride il cardiochirurgo. Che a 70 anni ne dimostra venti di meno («grazie al windsurf e al tennis») e ogni mese dedica una settimana a una missione («grazie a mia moglie che ha sempre tenuto unita la famiglia, le nostre due figlie e oggi i cinque nipotini»). Se gli si chiede quali siano i suoi fiori all’occhiello, mostra con orgoglio una foto: «Questo è il primo ecocardiogramma mai fatto nella storia dell’Amazzonia». Poi mostra quella di Halkawt Nuri, giovane medico curdo, «lo abbiamo formato noi ed è un talento impressionante, una vera rivelazione». Infine la piccola Ayleen, l’ultima vita salvata pochi giorni fa in Kurdistan: «Tre chili di bimba e solo due mesi. Eravamo lì per inaugurare il nuovo centro, non eravamo attrezzati per un’operazione così grave e in un cuore tanto piccolo, ma stava morendo e non c’era tempo per tergiversare. Abbiamo tagliato cannuline e tubicini per il suo minuscolo cuore ed è andata bene». Ieri la tivù del Kurdistan ha mostrato il suo ritorno a casa.
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