sabato 27 novembre 2021
A Pemba, lembo settentrionale della provincia di Cabo Delgado in Mozambico, uno dei sette Paesi dell’area australe chiusi al mondo solo i medici del Cuamm tra gli sfollati della guerra jihadista
Un medico dell’Ong italiana Cuamm nella tenda ambulatorio allestita a Naminaue, vicino Pemba

Un medico dell’Ong italiana Cuamm nella tenda ambulatorio allestita a Naminaue, vicino Pemba

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Malaria, dissenteria, malnutrizione, sifilide. E il Covid? Non rilevato, troppi soldi necessari per un tampone. I vaccini promessi dall’estero? Pochi, col contagocce, nonostante gli allarmi freschi di giornata sulle varianti. Pemba, lembo settentrionale della provincia di Cabo Delgado, in Mozambico, uno dei sette Paesi dell’Africa australe a cui l’Italia e buona parte del mondo hanno chiuso le frontiere a causa della nuova variante sudafricana Omicron. Nel «dislocamento» di Naminaue, accampamento a 40 minuti di auto da Pemba, 9.200 sfollati vivono sotto precari ricoveri fatti solo di tende e bambù. Sono gli “scartati” di uno dei conflitti più dimenticati del pianeta, quello di Cabo Delgado appunto, provincia che da 2017 in poi è stata teatro di scontri tra le forze di sicurezza locali e gli shabaab, i «giovani» che si presentano come fondamentalisti islamici e che hanno rivendicato anche legami con il Daesh.

È sotto il tendone allestito dall’Ong italiana Medici con l’Africa Cuamm che gli sfollati, da alcune settimane, hanno almeno accesso a un «posto di salute», un primo importante punto di riferimento rispetto a un fragilissimo sistema sanitario. Sono gli «attivisti comunitari», formati dal Cuamm, a girare tenda per tenda e a esortare gli sfollati che hanno problemi sanitari a presentarsi sotto il tendone. Qui operano un «tecnico di salute» e tre infermieri, tra cui una addetta alle cure materno-infantili. Vengono effettuate le visite e le mamme possono sottoporre i bambini alle vaccinazioni obbligatorie. Osserviamo il registro delle ammissioni: a farla da padrona è la malaria, ma anche la malnutrizione qui è diffusa. Tra gli sfollati in pochi indossano la mascherina a parte i cinque attivisti comunitari, che sono anche gli unici ad essere stati vaccinati contro il Covid-19. Qui nel tendone del campo le dosi non arrivano.

È il governo a condurre periodiche campagne di immunizzazione, che dipendono però dagli arrivi dei lotti dall’estero. Il Mozambico non fa eccezione rispetto al resto dell’Africa, dove appena il 3% della popolazione ha ricevuto due dosi di vaccino. “Abituati” alla povertà estrema e a curarsi spesso per giorni solo con erbe tradizionali prima di recarsi nei pochi ospedali, per i mozambicani il Covid si è quindi trasformato soltanto in uno dei mille problemi con cui confrontarsi ogni giorno. Una sorta di abitudine alla precarietà, non solo sanitaria, che appare ancora più evidente nei campi per gli sfollati.

In quello di Naminaue, dopo una prima visita da parte del “tecnico di salute”, vengono effettuate le diagnosi e, per i casi più semplici, dati dei farmaci. A chi ha bisogno di terapie più approfondite viene invece raccomandato di rivolgersi alla clinica sanitaria. Considerata la distanza, almeno 10 chilometri di strada sterrata sotto un sole cocente, non di rado i pazienti sono però costretti a rinunciarci. Tra questi, anche qualcuno con infezioni alle vie respiratorie, uno dei sintomi più comuni del Covid. «In generale quando ci sono state delle misure restrittive da parte del governo i mozambicani hanno dimostrato un buon senso di responsabilità rispetto al Covid – spiega Andrea Canini, medico in igiene e salute preventiva del Cuamm, originario di Bologna e capo progetto qui a Pemba –. Chiaramente però le condizioni di vita sono tali da non permettere ad esempio con facilità l’isolamento, quando in otto o in dieci si deve condividere una tenda».

Dall’inizio della pandemia il Covid-19 ufficialmente ha provocato in Mozambico 1.940 morti e 152mila contagi, anche se il costo e la poca disponibilità dei tamponi rende questi dati molto precari. Nel settore privato sottoporsi a un tampone costa dai 3mila ai 5mila meticais (45-70 euro), una “tassa” esorbitante. Nel settore pubblico, invece, varie inchieste hanno svelato la vendita sottobanco dei pochi test disponibili per non meno di 1.500 meticais (20 euro), denaro che non tutti possono permettersi di spendere.

«Il Cuamm – aggiunge Canini – ha svolto attività di prevenzione, provveduto a distribuire mascherine fatte in casa e riutilizzabili, informato sull’importanza del distanziamento e del lavaggio delle mani, anche se in certi contesti ciò che si può fare è limitato». «È vero – conclude il medico – che c’è un alto livello di contagi non diagnosticati ma so anche, tramite i miei colleghi, che i casi gravi di coronavirus in Mozambico sono veramente pochi. Credo che il fatto di vivere molto all’aria aperta, unito ai raggi ultravioletti, in questo senso abbia aiutato molto l’Africa in generale. Certo, resta il nodo dei vaccini: sulle dose promesse siamo molto indietro. Con l’insorgere di varianti, come l’ultima “sudafricana”, rischia di essere un boomerang soprattutto per i Paesi ricchi visto che per una volta un flagello non sta colpendo in misura maggioritaria il Sud del mondo». E Omicron altro non sembra che una conferma di questo, come sostengono i virologi più quotati: nelle zone a basso tasso di vaccinazione il virus, come quelle africane, da un lato muta più rapidamente e dall’altro rischia di diventare endemico.

A essere impegnata sul fronte Covid è anche Caritas Mozambico che attua per altro interventi sociali ad ampio raggio sul territorio, per sfollati e non. «In alcune fasi della pandemia abbiamo dovuto ridurre i nostri interventi – spiega il responsabile Caritas di Pemba, Manuel Nota –. Poi è stato il vescovo a sottolineare che noi siamo qui per aiutare e che non c’era tempo da perdere. Non abbiamo vaccini? Ebbene, mascherine, distanziamento e igiene sono stati il nostro metodo di azione. Perché anche qui dobbiamo riuscire a tornare alla normalità».

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