sabato 3 agosto 2019
L'obiettivo è di togliere ossigeno all'opposizione che protesta per l’esclusione dei candidati dell’opposizione alle elezioni della Duma della città di Mosca.
L'arresto dio Lyubov Sobol (Ansa)

L'arresto dio Lyubov Sobol (Ansa)

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Non ha fatto in tempo ad avvicinarsi al “cuore” della manifestazione che lei stessa aveva convocato. Il tempo di scendere dal taxi e Lyubov Sobol – la fedelissima di Alexei Navalny e “madrina” delle proteste che hanno invaso il centro di Mosca – è stata caricata su una camionetta della polizia. E portata via.

«Perché avete i caschi, avete paura di una ragazza al 20esimo giorni di sciopero della fame?», ha schernito i poliziotti. Capelli biondi raccolti in una coda, la giovane (e pugnace) avvocato, prima di essere portata via, ha chiesto le tessere identificative degli agenti e ha letto i loro nomi ad alta voce davanti ai giornalisti che hanno documentato il fermo. Poi ha chiesto la ragione del fermo e le è stato risposto da uno degli agenti “20.2”, ovvero l’articolo del codice russo che vieta le manifestazioni non autorizzate.

Unica oppositrice ancora a piede libero dopo la condanna di Navalny e Dmitry Gudkov a 30 giorni di carcere, Ivan Zhdanov a 15 e Ilya Yashin a 12, Sobol era stata fermata altre volte prima di ieri, ma sempre rilasciata. Dopo di lei è toccata ad almeno altri 800 manifestanti. Una settimana fa ne erano stati fermati oltre 1.000. Tutti “colpevoli” di essere scesi in strada senza l’autorizzazione preventiva delle autorità. Si trattava di un corteo «pacifico per protestare contro l’esclusione dei loro candidati dalle elezioni del mese prossimo», è stata la replica degli attivisti. «Quello di protestare è un diritto sancito dalla Costituzione», hanno ripetuto in coro. Ai fermati, secondo gli attivisti, sarebbe stato negato di contattare i propri avvocati. In molti hanno denunciato di aver subito violenze e percosse da parte della polizia.

A San Pietroburgo si è svolta una manifestazione “satellite”, con circa mille persone scese in strada.

Il nodo è sempre lo stesso: l’esclusione dei candidati dell’opposizione alle elezioni della Duma della città di Mosca. Per le autorità non sono state raccolte firme autentiche sufficienti per la registrazione. Tesi respinta come falsa dall’opposizione, che parla di un’operazione messa a punto per estromette candidati “scomodi”.

A gettare ulteriore benzina sul fuoco, il “fronte” giudiziario. Con una tempistica singolare, la Commissione inquirente russa ha reso nota l’apertura di una inchiesta per riciclaggio di un miliardo di rubli (13,7 milioni di euro) a carico della Fondazione anti-corruzione di Aleksei Navalny – attualmente in carcere – per cui lavorano anche Lyubov Sobol e Ivan Zhdanov.

Quello di questo sabato è un copione già noto. Che ricalca quanto accaduto domenica scorsa. Anche in quell’occasione, il Cremlino ha usato il pungo di ferro contro la protesta, fermando oltre mille persone. La repressione politica nella Russia di Putin sta assumendo un volto sempre più duro. L’accusa contro gli oppositori potrebbe essere più grave della solita “organizzazione di una manifestazione non autorizzata” per la quale mercoledì il più importante trascinatore delle proteste anti-Putin, Alexiei Navalny, è stato arrestato e subito condannato a 30 giorni.

Gli investigatori russi infatti hanno da poco aperto un’inchiesta su una serie di cortei per «ostruzione al lavoro delle commissioni elettorali». Le proteste per l’ammissione dei dissidenti alle elezioni quindi potrebbero costare agli organizzatori fino a cinque anni di reclusione.

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