giovedì 20 maggio 2021
Biden arranca mentre permane la chiusura del confine per il Covid. Da questa settimana, Washington consente a pochi la richiesta di asilo: solo ad aprile sono giunti 173mila migranti
Migranti dell'America centrale in fila al posto di blocco di Ciudad Juárez

Migranti dell'America centrale in fila al posto di blocco di Ciudad Juárez - Reuters

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«E'un incubo. Mai avrei pensato di finire a dormire per la strada». Da trentadue giorni, Gloria, 58 anni, di Città del Guatemala, abita nella Plaza Republica di Reynosa, insieme ad altre centinaia di deportados express. Così, nella lingua franca della frontiera, sono chiamati i profughi respinti dall’El Dorado Usa subito dopo avervi messo piede. Per un anno e due mesi, il confine è rimasto blindato in base al “Titolo 42” per emergenza sanitaria. Inutile bussare: in deroga al diritto internazionale, la porta è stata sprangata anche per i richiedenti asilo. Solo i minori soli – eccezione introdotta da Joe Biden al decreto del predecessore – erano accolti. A ridosso del valico internazionale, dunque, Gloria si è separata da Frankli, il nipote autistico di 13 anni. «L’ultima cosa che ho visto di lui è la sua schiena mentre veniva preso in custodia dalle autorità». Lei, invece, è stata spedita a Reynosa, senza possibilità di proseguire né soldi per tornare indietro. I suoi risparmi sono finiti nelle tasche del coyote, trafficante, contrattato per attraversare il Messico. Il commercio di esseri umani non contempla la clausola «soddisfatti o rimborsati». L’unica sua speranza è quella di riuscire a entrare nel «club dei 250», cioè i 250 aspiranti profughi a cui, da questa settimana, Washington consente di presentare istanza. «Non ho altra scelta. Non posso tornare nel mio Paese per paura che mi ammazzino – aggiunge Karen, honduregna di 28 anni –. E non posso restare qui per la stessa ragione». Reynosa è una delle dieci città più pericolose al mondo per Seguridad, justicia y paz a causa dell’asfissiante presenza della criminalità.
Per i narcos, i deportati sono una preda fin troppo facile. Nella speranza di essere meno vulnerabili, questi si sono ammassati nella piazza di Reynosa. A meno di tre mesi dalla chiusura del campo Matamoros – emblema del pugno di ferro di Donald Trump che intrappolava gli aspiranti rifugiati dall’altro lato della frontiera –, la questione ha traslocato di novanta chilometri. «A Plaza de la Republica sono ormai 400, in gran parte centroamericani: ad aprile si sono aggiunte 80 persone alla settimana. E non è solo Reynosa. Da Ciudad Juárez a Tijuana, il confine messicano si va popolando di tendopoli di espulsi, catapultati in zone ad alto rischio. In quattro mesi, Human righs first ha registrato 494 attacchi ai migranti. Molti scompaiono da Plaza de la Republica dalla sera alla mattina», spiega José Antonio Silva, coordinatore di Medici senza frontiere (Msf) a Reynosa. Congelato dall’approccio muscolare di Trump e, soprattutto, dalla pandemia, da fine 2020, il flusso da El Salvador, Honduras e Guatemala è aumentato fino all’attuale livello record. Il Covid ha acuito a livelli intollerabili povertà e violenza già endemiche. E i coyotes hanno intensificato la propaganda: il Tech transparency project ha trovato almeno 50 pagine Facebook “pubblicitarie” di viaggi oltreconfine. Risultato: ad aprile, gli arrivi sono stati oltre 173mila, la cifra maggiore da vent’anni. Di pari passo, sono cresciute le espulsioni: più di 3.500 al giorno negli ultimi due mesi.
«La frontiera sanguina», come scriveva Carlos Fuentes. E la ferita rischia di infettare l’amministrazione Biden che là si gioca buona parte della propria credibilità interna e internazionale. Seguendo le orme di Barack Obama nel 2014, il presidente ha affidato lo spinoso dossier alla numero due. Proprio come Biden, Kamala Harris vuole affrontare le cause dell’esodo con un pacchetto di aiuti allo sviluppo in Centro America: 310 milioni sono già stati stanziati e altri 861 milioni sono stati chiesti al Congresso per un totale di 4 miliardi in quattro anni. L’idea sulla carta è buona eppure, sette anni fa, i 2,6 miliardi elargiti da Washington alla regione funzionarono ben poco perché la corruzione imperante rende i governi partner poco affidabili. La situazione non è migliorata: il fratello dell’honduregno Juan Orlando Hernández è condannato negli Usa per narcotraffico, il salvadoregno Nayib Bukele è accusato di autoritarismo dopo la destituzione di vari giudici della Corte Suprema, il guatemalteco Alejandro Giammattei è considerato “poco attento” ai diritti umani. Da qui l’idea di canalizzare gli aiuti attraverso le Ong e di condizionarli a un impegno anti-tangenti certificato. Harris viaggerà nella regione il 7 e l’8 giugno. Nel mentre, ha incontrato la giudice guatemalteca simbolo della lotta alla corruzione, Thania Aldana, in esilio negli Usa. E il dipartimento di Stato ha compilato una lista di funzionari centroamericani corrotti. Subito il Guatemala ha eseguito il primo arresto illustre per mazzette: Juan Francisco Solorzano, ex capo dell’agenzia fiscale. Ma anche critico verso Giammattei. Il suo fermo, dunque, potrebbe essere mirato a eliminare un rivale. Impossibile, con queste premesse, sapere se Harris riuscirà stavolta dove Biden fallì.

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