domenica 6 dicembre 2020
Il 2020 potrebbe surclassare ogni «record» di violenza con 40mila omicidi. E il contagio dilaga nei sobborghi poveri della capitale. Come Iztapalapa dove il crimine ha approfittato della crisi
Un’anziana donna vende fiori finti in una via della capitale, Città del Messico

Un’anziana donna vende fiori finti in una via della capitale, Città del Messico - Ansa

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Tra marzo e aprile c’è stato il lungo periodo di incertezza. Poi è giunta l’era delle restrizioni soft. Da giugno, il Messico è entrato nella tappa di “nuova normalità”. La routine di Rubén, però, non è mai cambiata. La sveglia suona alle 3 del mattino in punto, alla 3.40 raggiunge la fermata del pesero, il piccolo bus scassato e sovraffollato che collega il sobborgo di Iztapalapa con il cuore di Città del Messico. Rubén scende molto prima: di fronte all’ospedale generale di Izta, come i residenti chiamano il più popoloso e più povero dei municipi satellite intorno alla capitale. Due milioni di persone vivono schiacciati tra le rive del lago Texcoco e il monte Estrella, in casupole costruite le une sulle altre dove l’acqua corrente arriva a singhiozzo e gli allacci delle luce sono irregolari come quasi tutto. Tre quarti delle famiglie di Izta dipendono dall’economia informale. Tra queste quella di Rubén, venditore ambulante nei pressi della principale clinica dell’enclave. Dal suo banchetto ha visto con i suoi occhi l’ospedale saturarsi di malati, il via vai frenetico delle ambulanze in entrata, la lenta processione di carri funebri in uscita. Eppure non ha mai rinunciato a uscire un giorno per andare a lavoro. Per chi non ha contratto né assicurazione, restare a casa significa zero guadagno. Per questo, Iztapalapa non si è mai fermata. Per strada c’è l’immancabile folla di lustrascarpe, venditori di cianfrusaglie e cibo, domestiche a ore, operai a giornata.

La vita scorre come se il Covid non ci fosse. E, invece, c’è. Anzi questo sobborgo è il primo del Paese per numero di contagi: qui si concentrano oltre 30mila degli 1,1 milioni di casi totali. L’area è anche la seconda per numero di vittime: quasi 3mila. Il virus, però, è solo una delle due pandemie che soffocano Izta. L’altra, la violenza, per quanto storica, ha subito un incremento dalla scorsa primavera, quando vi hanno fatto irruzione i narcos di Jalisco Nueva Generación, l’organizzazione criminale che si contende con la mafia di Sinaloa il predominio non solo dei traffici ma pure di buona parte del Messico. I malviventi hanno annunciato il loro arrivo con dei video diffusi dalle reti sociali. Il repentino aumento degli omicidi ha dimostrato che non si trattava di uno scherzo. Jalisco Nueva Generación ha approfittato della confusione dell’emergenza sanitaria per fare il “salto” verso la capitale, fino ad allora relativamente fuori dal circuito della narcoguerra che da sedici anni dilania il Paese. Da una parte, i nuovi arrivati stanno eliminando – nel significato letterale del termine –, le piccole bande di delinquenti locali. Da qui la raffica di brutali omicidi, soprattutto di minori, reclutati – 40mila in tutto il Paese – come bassa manovalanza dai gruppi. Dall’altra, hanno creato una rete di supporto – dai pacchi di cibo alla distribuzione di medicine – per i colpiti dalla crisi. In pratica hanno trasformato il vecchio metodo del plata o plomo – soldi o pallottole – in plata y plomo, soldi e anche pallottole. Una linea d’azione già impiegata con “successo” negli Stati del centroovest, ormai fuori controllo.

Iztapalapa, dunque, è un’efficace metafora del Messico in agonia. Dilaniato dal Covid e dalla guerra di egemonia tra le mafie di Jalisco e Sinaloa. Ai quasi 109mila morti di Covid si sommano i 109 omicidi al giorno che rischiano di far battere a quest’anno il record di violenza del precedente. Gli esperti ipotizzano un totale di 40mila assassinii entro il 31 dicembre. Solo nei primi cinque mesi dell’anno ci sono stati 429 massacri. Finora sono stati uccisi 19 giornalisti, il numero più alto di sempre. I desaparecidos sono quasi 80mila. Eppure, mercoledì, nel presentare i primi due anni di governo, il presidente Andrés Manuel López Obrador, ha detto di aver mantenuto 97 delle cento promesse fatte in campagna. Sulla carta ne resterebbero solo tre: promuovere il decentramento, incrementare la produzione di energie rinnovabili e chiarire quanto accaduto ai 43 studenti di Iguala. Un trionfo, in pratica, confermato dal consenso, ancora al 60 per cento. Sulla violenza, il leader si è limitato a dire di avere ereditato un Paese in rovina. Fatto di per se vero, come dimostrano gli arresti negli Usa per presunti legami con i boss dei due strateghi della narco-guerra delle due precedenti Amministrazioni. Da quando è entrato in carica, però, López Obrador ha oscillato tra la minimizzazione e l’inefficace schieramento delle forze armate in funzione anti-narcos. Un’ambiguità simile a quella dimostrata nella gestione della pandemia, negata, ignorata, poi ammessa con riserve, a fasi alterne. Nel mentre, il contagio è dilagato. Il presidente, però, insiste. «Missione compiuta», ripete. Poi di ferma e aggiunge almeno: «Quasi».

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