martedì 3 giugno 2014
L’avvocato Kelnour: «La mobilitazione la rende felice. Mi ha detto più volte: “Ci credo davvero nella mia libertà”».
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​«Meriam è felice della pressione internazionale a suo favore, lo sa che c’è tanta gente là fuori che la sta appoggiando. Mi ha detto più volte che è qualcosa che riesce a renderla più forte in una situazione tanto complicata: questo sostegno le regala fiducia. “Io ci credo davvero nella mia libertà, non ho perso la speranza”, continua a ripetermi. E lo stesso è per il marito Daniel, che è tornato a far visita alla moglie in carcere domenica». Così l’avvocato Mohamed Kelnour, alla guida del collegio difensivo che assiste la 27enne sudanese cristiana condannata a morte a Khartum per apostasia, sottolinea ad Avvenire quanto importante sia la mobilitazione dell’opinione pubblica in questa vicenda. Sono le prime, poche dirette parole di Meriam che filtrano dal carcere in cui è rinchiusa da mesi. «Meriam si trova ancora nell’ala ospedaliera della prigione in cui ha partorito una settimana fa la piccola Maya – prosegue il legale –. Le hanno tolto le catene, ma presto potrebbe dover tornare in cella».Il rilascio della cristiana non è imminente. Già sabato sera lo stesso Kelnour lo aveva anticipato ad Avvenire: «In Sudan nessun potere politico può alterare un verdetto. Solo l’Alta Corte può decidere in merito al ricorso che abbiamo presentato». Domenica è arrivata la conferma da parte del ministero degli Esteri di Khartum: non c’è nessun piano per rilasciare Meriam «prima che ciò venga deciso dalla Corte d’appello». Insomma, le speranze suscitate sabato pomeriggio dalle dichiarazioni attribuite dalla Bbc al sottosegretario agli Esteri sudanese Abdallah Alazrag si sono rivelate per quelle che erano: una bufala. Il sottosegretario aveva detto che Meriam Ibrahim sarebbe stata «rilasciata a giorni» e che «sicuramente» la sentenza non sarebbe stata eseguita. L’avvocato Kelnour, da parte sua, per telefono continuava a ripetere ad Avvenire che tutto ciò non era vero. Poi, domenica, la smentita delle autorità sudanesi e la conferma anche dal marito Daniel Wani: «Meriam libera? Non ne so nulla».Insomma, Meriam, per ora, resta in carcere con i due figli, il primogenito Martin e la neonata Maya, nata in prigione mentre la madre aveva ancora le catene ai piedi. Di più: secondo il collegio difensivo della donna, le dichiarazioni del sottosegretario Alazrag avevano come obiettivo quello di «tenere buoni» i media e allentare le pressioni sul governo sudanese. La speranza dei legali è che già questo mese possa essere accolta la domanda d’appello, anche se, con loro sconcerto, ancora ieri dal tribunale sostenevano di non aver ricevuto l’incartamento. «Non abbiamo alcuna certezza sui tempi, nessuno ci ha contattato – prosegue Kelnour –. Noi non vediamo l’ora di poter evidenziare durante l’appello gli errori e le testimonianze rimaste inascoltate. Qui non si tratta di stabilire se Meriam prima fosse musulmana e poi è diventata cristiana oppure se sia sempre stata cristiana: non è quello il nostro compito. Si tratta invece di appurare se, in base alla Costituzione che garantisce la libertà di fede, Meriam abbia o meno il diritto di scegliersi la religione che preferisce. E noi crediamo che questo diritto ce l’abbia, lei come tutti. Non sarà cosa breve, comunque. Anche una volta iniziato l’appello, non c’è certezza sui tempi: il procedimento potrebbe durare un mese, due, tre». Intanto, però, i legali hanno anche presentato un’ulteriore istanza, indirizzata alla Commissione africana dei diritti dell’uomo, il cui statuto, ratificato dal Sudan, sostiene che l’apostasia non è un reato.L’avvocato conferma poi i timori legati alla sicurezza della donna nel momento in cui ne fosse deciso l’eventuale rilascio. «Al-Saman Al-Hady, che si è presentato ai giudici sostenendo di essere il fratello di Meriam, ha detto che o lei ridiventa islamica, e in quel caso tornerebbe ad essere “onorata”, oppure va uccisa insieme a tutti quelli che hanno abbandonato la fede. Meriam, peraltro, questo signore non l’ha mai visto prima. Altro che fratello». 
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