sabato 30 gennaio 2021
Un ettaro seminato a fagioli, grazie a Focsiv, ha dato a dieci donne la forza di ripartire: un esempio di agricoltura familiare che può far recuperare le tradizioni e la sovranità alimentare
Tre donne Mapuche al lavoro nell'orto sociale di Malalhue

Tre donne Mapuche al lavoro nell'orto sociale di Malalhue

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«La terra ci potrà salvare. Anche questa volta». È come un sussurro che, nonostante i mesi di lockdown e la paura dei tanti rimasti senza lavoro, diventa speranza a Malalhue. Località del comune di Lanco, 16mila abitanti nella regione di Los Rios, l’ultima prima della Patagonia, è la patria del popolo Mapuche, dove gli indigeni dalla pelle color ambra sono circa il 30%.
Una speranza coltivata attorno a un ettaro di terra, preso in gestione per due anni da una famiglia del villaggio, ripulito da sassi e sterpaglie e poi, dopo aver affittato un trattore con pale e aratro, seminato a fagioli: un progetto che, solo per il fatto di essere partito l’anno scorso, rappresenta una sfida che Comi (Ong Focsiv) ha voluto lanciare nel cuore del Cile. «Sono rientrata in Cile dopo 30 anni in Italia per lavorare con i popoli indigeni. Un desiderio insopprimibile: sono io stessa Mapuche» spiega ad Avvenire Rosario del Pilar Reuque Paillalef, referente Comi nel Paese. L’agricoltura familiare è l’attività su cui poggiava tradizionalmente gran parte della vita dei Mapuche, modello che l’emergenza Covid ha reso ancora più attuale. Dopo un periodo di studio iniziale, a fine 2019 l’Ong voleva avviare quattro “palestre”: la conoscenza delle erbe medicinali, secondo la tradizione Mapuche, per educare i giovani alla biodiversità, il primo progetto. Laboratori musicali e fotografici per la “palestra culturale”, mentre incontri di chueca una sorta di hokey su prato dei Mapuche, e gare di atletica il laboratorio sportivo. L’obiettivo, solo rimandato, era di organizzare un Festival della cultura Mapuche: «Il problema è di far recuperare ai giovani l’uso della lingua “mapudungun”, oltre che le nostre tradizioni», spiega Pilar Reuque.
Ma anche a un passo dalla “fine del mondo”, la pandemia – oltre 18mila le vittime – come un vento gelido ha bloccato ogni relazione. E il lockdown ha mostrato, anche nella piccola comunità di Malalhue, quanto sia precaria la sicurezza alimentare: «Uno sciopero nazionale di sei giorni dei camionisti ha fatto mancare per alcuni giorni gli approvvigionamenti alimentari di base», spiega Pilar. Lo spettro della fame per gli strati più deboli della popolazione ha confermato come un certo modello di sviluppo agricolo metta a rischio la «sovranità alimentare».
E fra misure di distanziamento fisico e chiusure forzate l’unico “laboratorio” che è riuscito a partire è stato quello agricolo: dare vita a un orto sociale. Ma nemmeno per questo l’avvio è stato agevole: «Lavorare insieme non era facile anche per esperienze fallimentari precedenti che tornavano a galla. Il rischio di nuovi contrasti e il ricordo di una riforma agraria di fatto mai entrata in vigore, creavano all’inizio una grande diffidenza». La scommessa è stata di dare fiducia a una decine di donne, farle credere che un aiuto concreto possa venire – mentre gli uomini che lavorano a giornata nell’“economia informale” si sono per forza fermati – dall’economia familiare. Ma non solo: durante l’emergenza nazionale, tra marzo e maggio, il piccolo ufficio del Comi è diventato anche un centro di informazione per presentare, grazie alla connessione Internet e all’aiuto di Pilar, le domande di sussidio statale – in media poco più di 100 euro a persona – come pure il luogo dove stampare le dispense per la scuola dei figli, costretti a rimanere a casa.
Relazioni di una comunità che, attorno all’orto, vuole ricostruisce la sua identità e trovare la forza di reagire alla pandemia. «Le donne possono lavorare, se gli uomini accettano questo», spiega Pilar. Un maschilismo rurale che si inizia a scalfire mentre cresce la capacità di reagire attorno a un orto a cui la campagna “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” fornisce le sementi. Resilienza, che a marzo darà i primi frutti: le piantine di fagioli – produzione ora in mano alle monocolture delle multinazionali – stanno germogliando e si aspetta un raccolto di non meno di una tonnellata e mezzo. Quanto serve per riempire la dispensa delle contadine, ma anche a iniziare una vendita ai mercati locali. Poi, a primavera, si potrà proseguire con la semina di spinaci, carote e rape rosse per il secondo raccolto. Una goccia ma capace di far evitare l’emigrazione a Santiago e restare fedeli alle radici dei Mapuche, il “popolo della terra”.



L’INIZIATIVA Caritas e Focsiv per il diritto al cibo: come donare

Il Covid sta creando una vera «pandemia della fame». Per rispondere, in modo coordinato ed efficace, è nata la campagna «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» di cui Avvenire è media partner. L’obiettivo è di sostenere, fino al gennaio 2021, più di 60 «punti di intervento» in Europa dell’Est, Africa, Asia e in America Latina.
Micro-progetti per aiutare chi soffre la mancanza di cibo e resi possibili da «Insieme per amore degli ultimi», alleanza operativa fra Caritas Italiana e Focsiv, la Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario.
Si può donare: online, all’indirizzo insiemepergliultimi.it/dona-ora; con bonifico a Banca Etica, intestato a Focsiv campagna Focsiv-Caritas Italiana, IBAN IT87T05018032000000 16949398; con c/c postale n° 47405006, intestato a Focsiv, causale: Focsiv-Caritas italiana – Insieme per gli ultimi

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