mercoledì 22 dicembre 2021
Quello che tutti sapevano, ora è ufficiale: non ci sono le condizioni per le presidenziali e le parlamentari del 24 dicembre. Proposto il rinvio di un mese al 24 gennaio
Il premier libico Abdul Hamid Dbeibah si era registrato al voto nei giorni scorsi a Tripoli

Il premier libico Abdul Hamid Dbeibah si era registrato al voto nei giorni scorsi a Tripoli - Ansa

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È un caos calmo. Che a molti conviene, mentre in Europa, all’Onu, a Roma e a Parigi, si assiste impotenti all’ennesima giravolta libica, dove alla politica si sovrappongono le rivalità tribali, il ricco bottino petrolifero, la mai sopita voglia di secessione fra Tripolitania e Cirenaica, con almeno tre convitati di pietra che assistono silenziosi allo sfacelo di un Paese profondamente diviso coltivando i propri lucrosi interessi geopolitici: la Turchia, la Russia e l’Egitto. Sul palcoscenico libico si agitano figure di ogni tipo e colore: dal primo ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibah (che aveva giurato di non candidarsi e poi invece, sebbene sommerso dalle critiche, è entrato pesantemente in gioco) al sempreverde Khalifa Haftar (un feldmaresciallo da operetta che Mosca ha finanziato e protetto ma che ha perduto malamente la campagna militare per la conquista di Tripoli), fino al redivivo Saif al-Islam Gheddafi (figlio dei rais, catturato nel 2015, detenuto, condannato a morte, quindi amnistiato e forte di un crescente favore popolare perché la nostalgia del passato è spesso più forte dell’incertezza del futuro). Accanto a loro, un centinaio di candidature, molte delle quali impresentabili. In compenso ci sono milizie, satrapi, capibastone di ogni risma, gli stessi che all’indomani della caduta di Gheddafi si erano spartiti gran parte dei lotti di potere: i salafiti l’esercito, gli zintan la regione dal confine tunisino alla capitale, i falchi di Misurata l’entroterra da Sirte a Tripoli, per non dire delle milizie di Bengasi e dintorni, alleate e talvolta avversarie di Haftar, cui vanno aggiunte le Guardie petrolifere, una autonominata milizia di pasdaran che sorveglia i terminali degli idrocarburi e nei giorni scorsi ha bloccato le attività estrattive di quattro giacimenti petroliferi e di gas naturale – Sharara, Feel, Wafa e Hamada – causando alla Noc, la compagnia petrolifera statale libica una perdita pari a 300mila barili al giorno.

Si poteva pensare di andare domani al voto in condizioni simili? Certamente no, come si è premurato di suggerire lo speaker del Parlamento Aguila Saleh, subito seguito dall’Alta Commissione Elettorale, che ha proposto «la data del 24 gennaio per il primo turno delle elezioni presidenziali », data che il Parlamento ha accolto. Un rinvio ampiamente annunciato, accolto con misurata amarezza. «L’Italia e l’Europa – ha commentato Mario Draghi – hanno fatto di tutto e continueranno a fare di tutto per favorire il processo verso la democrazia in Libia. Il fatto che non si sia riusciti a tenere le elezioni è dovuto a complicazioni istituzionali libiche, a una situazione che rimane fondamentalmente frammentata tra i vari centri di potere del Paese». Uno smacco soprattutto per Macron (va ricordato che è stato il promotore della recente e fallimentare Conferenza di Parigi sul futuro della Libia), che istigato dal suo inviato speciale Paul Soler, aveva puntato su Haftar, salvo poi ritrovarsi i turchi a sbarrargli la strada e a costringerlo ad aggiustare il tiro. Anche perché l’uomo forte della Cirenaica riemerge in un improbabile quanto agguerrito trio costituito con l’ex ministro dell’Interno Fahti Bashaga e l’ex vicepremier Ahmed Maitiq, entrambi di Misurata. Come sono agguerrite in queste ore le tante milizie, nessuna delle quali intende perdere terreno. «Se le cricche politiche dello status quo fanno altri giochetti ci sono possibilità concrete di disordini civili e anche di conflitto», ammonisce il candidato Aref Nayed.

Ma è l’assenza di una cornice legale a mettere tutto a repentaglio, nonostante 3 milioni di cittadini sui sette aventi diritto si sono registrati in vista del voto. Un voto che è atteso da sette anni e che lascia il popolo libico da dieci anni senza un governo (quello attualmente in carica scade domani) e senza una rappresentanza politica degna di questo nome. E c’è chi, come

l’ex membro dell’Alto Consiglio Ashraf Shah, accusa direttamente Dbeibah: «Il suo conflitto di interessi è la ragione del rinvio e il rischio di conflitto armato è altissimo. Né tra un mese né tra un anno si potranno tenere elezioni presidenziali in un simile scenario. L’unica strada percorribile è quella di tenere prima le elezioni parlamentari, per riunire le istituzioni libiche».

Ma tutti sanno che ci sono altri due grandi ostacoli sulla strada della normalizzazione. La Russia su tutti, con i mercenari della Wagner (che l’Onu ha accusato di crimini di guerra in Libia) schierati in Cirenaica a sostegno di Haftar e molto poco intenzionati a lasciare il campo. Almeno fino a quando non lo faranno i turchi, mandati da Erdogan in soccorso a Tripoli. Già attorno alla capitale si intravedono segnali di guerra. Le milizie si accampano, in attesa di nuove possibili violenze. «Gli Stati Uniti – dice l’inviato speciale della Casa Bianca Richard Norland – condividono la preoccupazione e la delusione della stragrande maggioranza dei libici che si aspetta di avere l’opportunità di votare per il futuro del proprio Paese». Sarebbe l’auspicio di tutti, dall’Onu, all’Italia, alla Francia, all’Unione Europea. Ma non è certo il proposito dei tanti attori esterni (da Mosca al Cairo a Ankara agli Emirati), per i quali questo caos calmo che si traduce nell’ennesimo stallo è la garanzia che gattopardianamente nulla davvero cambi.

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