mercoledì 25 maggio 2022
Accogliendo l’appello del sindaco Klitschko, esponenti di varie fedi si sono recati in missione di solidarietà nella capitale. E hanno pregato al Memoriale della Shoah
La delegazione internazionale dei leader religiosi al Babyn Yar, il memoriale della Shoah di Kiev

La delegazione internazionale dei leader religiosi al Babyn Yar, il memoriale della Shoah di Kiev - Stop the War Now

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«Dio della pace e della giustizia, ti preghiamo per il popolo ucraino. Ti preghiamo per la pace, perché tacciano le armi». «La pace sia con voi». «Shalom». «Salam». «Mir».

Nel novantesimo giorno di guerra, dal Babyn Yar, il Memoriale della Shoah, la parola «pace» è risuonata con forza per Kiev e per il resto dell’Ucraina. Silenziato dal fragore tragico dell’aggressione russa, da mesi, questo termine fa fatica a trovare spazio nel dibattito pubblico. Chi lo pronuncia, spesso, lo ha fatto strumentalmente. E, così, ha finito per diventare sinonimo di «resa».

L’opposto dello «smiluvist», «coraggio»: inciso in lettere cirilliche bianche sullo sfondo della bandiera giallo-azzurra, la scritta si ripete ovunque nelle strade della capitale, alternata ad appelli alla «resistenza». «Vittoria» – difficilmente «pace» – sembra, al momento, la sola aspirazione legittima.

Anche la gente per strada ormai chiede «vittoria»: troppo forte la paura che ogni altra conclusione sia incapace di saziare la voracità imperiale del Cremlino. In un’escalation narrativa che accompagna e precede quella militare, il conflitto cerca strenuamente di uccidere le sfumature. La pace, però, è un avversario ostinato, capace di “colpire” nei luoghi più inattesi.

Il Babyn Yar è uno spazio di morte: in questa radura, segnata da gole e fossati, fra il 29 e il 30 settembre 1941, furono massacrati oltre 33mila ebrei. Trasformato ora in un giardino ricolmo di lillà, il Memoriale è stato sfregiato, qualche settimana fa, dalle bombe dell’aviazione di Mosca, venuta – secondo la propaganda putiniana – a «denazificare» l’Ucraina. Proprio là, una delegazione di oltre una decina di leader religiosi, giunti da varie parti del mondo, ha voluto cominciare la propria missione di solidarietà, ripetendo più e più volte la parola «pace», declinata dai partecipanti in lingue e formulazioni, a seconda della fede di ciascuno.

«Non dobbiamo stancarci di dirla tutti, credenti di ogni fede e non credenti. Perché la guerra è una sconfitta per ogni essere umano, indipendentemente dalle proprie convinzioni. Mi risulta incomprensibile», afferma l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, che ha voluto unirsi all’iniziativa, nata da una richiesta del sindaco di Kiev, Vitalii Klitschko. Era stato il primo cittadino, a marzo, a rivolgersi leader spirituali affinché venissero a Kiev e la trasformassero, con la loro presenza, nella «capitale della pace». «Ci siamo, così, messi all’opera. Ed eccoci qui. Speriamo che il nostro intervento contribuisca a costruire un’alternativa alla ferocia bellica», spiega uno degli organizzatori, Mateusz Piotrowski, presidente di “Europe, a patient”.

«Siamo disposti a tutto per fermare il conflitto, fuorché a uccidere», aggiunge Alberto Capannini, tra i fondatori dell’Operazione Colomba della Comunità Giovanni XXIII e rappresentante di Stop the War Now. La coalizione di 170 associazioni, enti, movimenti, dal 24 febbraio, ha accolto in Italia circa quattrocento profughi. «Perché pace è molto più di una parola, è la vita delle persone. Non abbiamo la presunzione di poter stoppare la macchina bellica ora. Rifiutiamo, però, di rassegnarci. L’antidoto all’onnipotenza e la rassegnazione è il lavoro quotidiano per alleviare le sofferenze di chi la guerra la subisce».

Le vittime, oltre alle autorità politiche, sono i protagonisti della due giorni di incontri che si conclude oggi, dopo un altro momento di preghiera fuori dalla cattedrale di Santa Sofia. «Vogliamo ascoltare le loro testimonianze per imparare. Il nostro è un pellegrinaggio di ricerca di comprensione su come lavorare insieme per ricostruire. Non solo le case e le infrastrutture. Si tratta di curare lo spirito ferito», sottolinea l’imam Yahya Pallavicini, presidente dell’Islamic religious community-Italy (Coreis). Accanto a lui Dawid Szychowski, rabbino di Toolz, in Polonia: «La guerra nasce dal peccato dei peccati secondo la Bibbia: la rottura della fraternità. Il Babyn Yar è l’emblema delle conseguenze estreme di tale rottura».

«Per questo non dobbiamo stancarci di edificare la pace. Quest’ultima non è spontanea: implica sforzo, impegno, ostinazione», dice Joe Bailey Well, vescova anglicana di Dorking e rappresentante della Chiesa d’Inghilterra. «È un processo dinamico – le fa eco suor Sheila Kinsey, religiosa francescana e esponente dell’Unione delle superiore e dei superiori generali –. Parte dal riconoscimento dell’altro. Ma richiede molta pazienza. E umiltà. Non si mette fine a una guerra da un giorno all’altro. Si getta un seme e si attende che germogli».

Pazienza e determinazione ad aggrapparsi a qualunque spiraglio di soluzione nonviolenta sono anche i due assiomi del pensiero di Yurii Sheliazenko. Storico e ricercatore, il segretario esecutivo del Movimento pacifista ucraino sa quanto sia difficile parlare di nonviolenza in questo momento.

«Lo era anche prima. Ora molto di più. Ho perso amici, ho ricevuto insulti – racconta –. Nessuno difende le ragioni di Putin perché non è ha. Il suo è un attacco feroce e illegittimo. Il punto è che la guerra non risolve i problemi. Chiediamo un cessate il fuoco immediato e l’avvio di veri negoziati». Sheliazhenko non è un ingenuo, sa che non si tratta di un processo esente da rischi. «Per minimizzarli si devono aumentare gli incentivi per la pace. Finora la comunità internazionale sembra avere fatto il contrario. Per questo, è necessaria la pressione dei cittadini. Devono essere loro a "costringere" i loro leader». Da qui l’importanza di lavorare dal "basso".

«Proprio come fanno i colleghi in Russia. E noi qui. Ogni tanto qualche risultato arriva», dice mostrando “Youth against war”, nuovo gruppo appena nato su Facebook. A fondarlo Bohdan Krasavtec, poeta e cantante 31enne di Kiev. «Sul campo di battaglia questa guerra non finirà mai – spiega il ragazzo –. Ci vuole un dialogo. E il mondo ha gli strumenti perché possa realizzarsi. È una questione di volontà. Sono convinto che tanti lo pensino. Ma magari ora non lo dicono. Ho deciso, così, di proporre un canale di incontro virtuale. Solo insieme possiamo porre termine a questa distruzione».

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