venerdì 25 ottobre 2013
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L'ira del Vecchio mondo per l’invasione del Grande fratello americano sulle sue sponde ha un po’ il sapore di un gioco delle parti: lo spionaggio pervasivo che i governi europei hanno finora tollerato – o più spesso assecondato a proprio vantaggio – crea scandalo solo quando viene allo scoperto. L’improvvisa preoccupazione dei leader europei per la privacy dei loro cittadini è alimentata anche dalla sensazione che la partita si sia spinta troppo in là, azzardandosi a penetrare nei corridoi delle loro Amministrazioni. Ma la vera novità portata alla luce dai documenti top secret sullo spionaggio americano all’estero e dalla levata di scudi europea non è che gli Stati Uniti spiino i loro alleati, capi di Stato come comuni cittadini, sia negli Usa che a casa loro. È piuttosto che, grazie ai passi avanti della tecnologia e a leggi sullo spionaggio ferme a poco più del microfono sotto la scrivania, la portata e la capillarità delle intercettazioni americane hanno raggiunto «proporzioni incontrollabili». E nessuno, negli ultimi 12 anni, si è preoccupato di informare l’opinione pubblica su cosa esattamente comportino all’epoca di Facebook le “misure straordinarie” per la lotta al terrorismo che gli americani hanno accettato ancora sotto choc dopo il crollo delle Torri gemelle. Quando le prime rivelazioni di Edward Snowden sull’attività della Nsa sono emerse a giugno, la rivista tedesca Der Spiegel ha pubblicato un’inchiesta sulla cooperazione «estesa e pervasiva» fra l’agenzia di spionaggio americana e il Bnd, i servizi segreti tedeschi per l’estero, ricordando fra l’altro l’esistenza di una struttura di monitoraggio congiunta Nsa-Bnd ad Aibling, del tutto operativa. Negli ultimi sei mesi i media europei ed americani hanno documentato simili partnership fra la Nsa e altri governi europei, compresi quelli di Londra e, in misura minore, di Parigi. Non è neanche vero che sono gli Stati Uniti a commettere le violazioni più severe della privacy. Il governo britannico può «auto-autorizzarsi» a raccogliere informazioni digitali, e un rapporto delle Nazioni Unite sulla libertà d’espressione e di comunicazione, pubblicato a giugno, ha contato 500mila «permessi» simili all’anno negli ultimi anni. Tanto che le cinque maggiori società di Internet al mondo (Google, Microsoft, Facebook, Twitter e Yahoo) lo scorso aprile hanno scritto al ministro degli Interni britannico, Theresa May, rifiutandosi di partecipare alla «legge ficcanaso», come è stata soprannominata, che imporrebbe alle aziende straniere di registrare e conservare tutti i messaggi di posta elettronica, navigazione online e sui social media che transitano per i loro server. Inoltre nei Paesi Bassi lo scorso anno è stata proposta una misura che permetterebbe alla polizia di inserirsi senza autorizzazione giudiziaria in tutti i computer e i cellulari olandesi per inserire software di raccolta dati. Google ogni anno riceve migliaia di richieste da tutti i governi, e non solo quello americano, che esigono dai nomi e gli indirizzi IP di chi crea siti Internet o indirizzi email ai registri degli scambi di comunicazioni degli utenti di Gmail. Queste richieste sono quasi raddoppiate in tre anni, passando da circa 12mila nel 2009 a 22mila lo scorso anno.Ad essere effettivamente partita dagli Stati Uniti è però l’estensione del mandato del governo di spiare i suoi cittadini «per il loro bene». È un implicito accordo che esiste da sempre e che si è affinato durante la guerra fredda, sollevando timori di violazioni dei diritti civili già negli anni Settanta, quando nel mirino della Cia finirono innumerevoli gruppi di sinistra di tutto il mondo, comprese associazioni ambientaliste, pacifiste e anti-nucleariste. Dopo l’11 settembre, però, quel mandato si è allargato di fronte a un nemico meno visibile, proprio mentre i progressi tecnologici che originavano soprattutto dagli States spingevano Washington a espandere i suoi poteri di sorveglianza. Gli Stati Uniti, e altri Paesi occidentali, fanno notare che la crescita dei programmi di spionaggio negli ultimi dieci anni ha permesso di far saltare numerosi attentati. Ma se così è, rispondono i gruppi di difesa delle libertà civili, forse questo patto dovrebbe essere esplicitato e codificato in una serie di leggi nazionali e accordi internazionali che definiscano che cosa è possibile raccogliere, per quanto tempo e in che modo. Oggi, conclude infatti lo studio dell’Onu «non c’è nulla che costringa i governi a distruggere i dati dopo un certo periodo di tempo, né definizioni su chi può consultare e usare quei dati, o per quale scopo». I gruppi che chiedono chiarezza stanno aumentando, e molti scenderanno in piazza nella capitale Usa domani, 12esimo anniversario della firma del Patriot Act, la legge che contiene le famose «misure straordinarie» per la lotta al terrorismo.
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