martedì 31 maggio 2022
Mogli e sorelle dei «difensori di Mariupol» creano «Women of steel» per riportare a casa i prigionieri nelle mani dei russi. Nataliia: «Ora è il nostro turno di lottare»
Tetiana Kharko, sorella di Serhii Volynskyi, comandante della brigata Azoc, parla alla conferenza stampa delle "Women of steel" a Kiev

Tetiana Kharko, sorella di Serhii Volynskyi, comandante della brigata Azoc, parla alla conferenza stampa delle "Women of steel" a Kiev - Reuters

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«Ciao bella, ti amo». Le dita di Nataliia Zarytska sfiorano lo schermo del telefono dove è scritto il messaggio di Bohdan. Sembra quasi voler accarezzare le parole che il soldato Sements ha affidato a WhatsApp quel 17 maggio. Poche ore dopo, il militare e il resto dei "difensori di Mariupol" – circa un migliaio di persone – sarebbero usciti dalla fabbrica-bunker Azovstal dopo 82 giorni di resistenza. Subito catturati dai russi, sono stati caricati su una serie di bus diretti verso una destinazione ignota.

«Non so più niente di lui. Se è vivo, se è morto, se sta bene o se è caduto in un nuovo inferno. Mercoledì scorso ho ricevuto una chiamata dalla Croce Rossa internazionale: il funzionario mi ha detto che mio marito e gli altri sono stati portati in uno dei territori ucraini sotto il controllo di Mosca. Ma nessuno sa quale», afferma la giovane di 36 anni, dai lunghi capelli biondi, il fisico esile e la voce determinata. Non può essere altrimenti, del resto è una "donna d’acciaio". «Lo sono diventata. Stando al fianco di Bohdan», aggiunge.

"Women of steel" – donne d’acciaio, appunto – è il neonato comitato creato creato dalle sorelle, mogli, madri, fidanzate delle truppe dell’Azovstal ma aperto a chiunque abbia un familiare nelle mani del Cremlino. Perché – spiegano – i prigionieri dell’Azovstal sono solo la punta dell’iceberg: dal 2014, migliaia di combattenti ucraini sono stati presi da Mosca e non sono più tornati. «Siamo in una nuova fase della battaglia. La prima l’hanno combattuta i nostri cari. A Mariupol come nel Donbass e in ogni parte del Paese. Ora è il nostro turno». "Women of steel" è l’avanguardia di questo secondo tempo della lotta. L’obiettivo dell’associazione è fare da ponte tra i parenti dei prigionieri e le autorità.

«Nelle ultime due settimane, abbiamo visto tanti di noi girare a vuoto, senza sapere a chi rivolgersi e come fare per ottenere informazioni. Da qui è nata l’idea di unirci per darci una mano l’un l’altro. Non solo con quanti condividono il dramma dell’Azovstal: chiediamo il contributo di chiunque, il qualunque parte del mondo, voglia collaborare. Abbiamo appena aperto un canale Telegram e, nelle ultime ore, ho già ricevuto 48 telefonate di persone che vorrebbero aderire», sottolinea Nataliia che nei volantini diffusi porta a porta e sul Web ha inserito il suo numero personale. «Chiamate quando volete, è sempre acceso».

Il tono di questa "donna d’acciaio" cambia solo quando ricorda la lunga relazione con Bohdan, iniziata tre anni e mezzo fa. Meno di un anno dopo, nel marzo 2019, il giovane ha lasciato la Marina per entrare nell’Azov. Un battaglione controverso, accusato di simpatie naziste. «Bohdan non era un fanatico, voleva solo rendersi utile».

L’ultimo incontro con Natalia è avvenuto il giorno di San Valentino quando lei è andata a trovarlo a Mariupol. «Mi sembra che sia trascorso un secolo. La guerra ha cambiato la percezione del tempo. Pensavamo di averne tanto e invece... Tutto si è accelerato. Così, quando la situazione nella città sul Mare d’Azov ha cominciato a precipitare, abbiamo deciso di sposarci. L’abbiamo fatto il 17 aprile, a distanza. Bohdan e io abbiamo già un figlio, Alexander. Parlavamo spesso di averne un altro. È questa idea a darmi la forza di andare avanti», dice, facendo sempre più fatica a trattenere le lacrime.

Nataliia scorre rapidamente le foto sul cellulare. «Questo era Bohdan quando l’ho conosciuto». Sullo schermo compare il viso del ragazzo, incorniciato da una massa di capelli folti e scuri. «E questo è lui dopo due mesi nell’Azovstal». Mentre parla, mostra una delle ultime immagini del marito: il volto è lo stesso, la pelle, però, è ingiallita, le guance scavate, il sorriso forzato contrasta con le occhiaie, scure e profonde. «Vede? Ha 31 anni ma ne dimostra cento... Una volta mi ha raccontato che trentasei dei suoi compagni erano morti. Ventiquattro in un unico attacco. Spesso sono stati colpiti con le armi al fosforo. Altre volte, i soldati sono stati uccisi da malattie curabili. Là, però, non avevamo più niente per curarle». La voce, fino ad allora ferma, si spezza. Le viene in soccorso Olena Chornobay, moglie di un militare della guardia di frontiera in servizio a Mariupol, tra le fondatrici – insieme a Tetiana Kharko e Sandra Krotevych, sorelle rispettivamente del comandante della 36esima brigata della Marina, Serhii Volynskyi e del maggiore Bohdan Krotevych, ex comandante dell’Azov – di "Women of steel".

«A gennaio, mio marito ha chiesto di andare a Mariupol perché aveva capito che la crisi sarebbe scoppiata e voleva difendere il nostro Paese. Da lui ho imparato il coraggio. Mi ha chiamato poco prima di uscire dall’Azovstal e, anche allora, ha pensato a me. "Non preoccuparti, andrà tutto bene", mi ha detto, prima di riattaccare», racconta in ucraino. Per farsi capire, dato che non conosce l’inglese, si fa aiutare da un amico. «Voglio che tutti mi ascoltino. Sono orgogliosa di mio marito e voglio che lui sia orgoglioso di me. Per questo, non mi arrenderò fino a quando non l’avrò riportato a casa. Alla Russia chiediamo di rispettare la Convenzione di Ginevra, nient’altro». «Perché non ci concede almeno una telefonata con loro? – interviene Nataliia – Se potessi, a Bohdan direi: "Sii forte, resta vivo e, per favore, torna". Torna».

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