mercoledì 17 ottobre 2012
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​Come nel Panopticon, il carcere ideale progettato da Jeremy Bentham, siamo tutti visti senza sapere chi ci guarda: se là era la forma radiocentrica della struttura a permette a unico guardiano di tenere sott’occhio tutti i prigionieri in ogni momento, su Internet siamo noi stessi a consegnarci allo sguardo scrutatore non di uno ma di una moltitudine di sconosciuti. Nella maggior parte degli internauti è profondissima l’inconsapevolezza del rischio che corrono quando cedono i propri dati sensibili. Postare un’immagine sul Web, confidare su Facebook gusti e disgusti, raccontare esperienze ed aneddoti non è senza conseguenze: «Lasciamo una serie inimmaginabile di tracce che sommate, incrociate e lette nella maniera giusta consegnano il nostro profilo, il nostro identikit, nelle mani altrui rendendoci vulnerabili. Il minimo che ci possa capitare – spiega Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e Antropologia dei Media all’Università Cattolica di Milano – è diventare un target per il marketing. Diventa un’operazione banale scoprire cosa ci piace e cosa no e tempestarci in modo mirato ed efficace di promozioni e spot». Ma può anche andare peggio e le informazioni venir usate per una sorveglianza di tipo politico, come capita nei regimi dove la democrazia è un’illustre sconosciuta. E tempo fa fece discutere il caso di una ragazza licenziata per aver postato sul proprio blog una critica al datore di lavoro: «Le tracce che lasciamo su Internet sono indelebili, dalla Rete niente si cancella mai davvero. E si cumulano – continua Giaccardi –  fotografandoci in maniera molto accurata. Fornendo informazioni su di noi e sulla nostra vita, ci consegnano a un controllo che limita la nostra libertà». Per esempio non possiamo più criticare il nostro capufficio... «Il confine tra pubblico e privato è diventato molto labile. Su Facebook, per esempio, tutto viene esibito e condiviso con gli amici. Ma è un’illusione – prosegue l’antropologa dei media – in realtà è come parlare con gli amici, in una piazza pubblica usando il megafono».Ma che colpa ne ha Google se ciascuno è pronto a fare a meno di qualsiasi intimità, a darsi in pasto al World Wide Web? «Proprio perché regna la più profonda inconsapevolezza si richiede più responsabilità a chi maneggia i dati. Prima di tutto è necessario evidenziare chiaramente come possono venir usate le informazioni – spiega Giaccardi – e, poi, rendere possibile e facile negare il proprio consenso all’utilizzo. Resta il fatto che è necessario uno sforzo e un cambiamento di abitudini anche da parte degli utenti. Bisogna imparare a proteggersi».
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