venerdì 19 luglio 2019
L’ordine di Ortega nel quarantesimo anniversario in Nicaragua
La rivoluzione sandinista fa festa e vuole nascondere l'insurrezione
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Non ci saranno gli intellettuali-icona della sinistra latinoamericana e mondiale. E la prima fila sarà occupata dai rappresentanti dei governi di Venezuela, Cuba e Iran. Ma l’ordine è chiaro: oggi, niente deve fermare la celebrazione, nella plaza de la Fe di Managua, dei 40 anni della Rivoluzione. Sandinista è ovvio. L’altra rivoluzione, quella disarmata, esplosa un anno e mezzo fa, è tabù per i vertici nicaraguensi. Il presidente Daniel Ortega e la vice, nonché sposa, Rosario Murillo, non si stancano di ripetere che l’insurrezione non è mai avvenuta. Si è trattato di un «golpe imperialista» ormai «archiviato ».

Poco importa che le inchieste di esperti internazionali indipendenti abbiano smentito la tesi dell’intervento straniero. Il versione ufficiale è stata scritta con l’inchiostro indelebile dell’ideologia orteguista. I festeggiamenti odierni sono stati “disegnati” per confermarla. La capitale è blindata: agenti con armi pesanti presidiano i punti nevralgici della «città senza centro», perché distrutto dal terremoto del 1972. Un copione analogo a quello impiegato per la celebrazione preparatoria, dieci giorni fa, a Masaya, alle porte di Managua. Eppure, allora, il dispiegamento di forze di sicurezza non ha impedito ai cittadini di manifestare il proprio dissenso sprangando le porte e lasciando i rifiuti sulla soglia di casa. Anche stavolta, dunque, potrebbe esserci qualche espressione di «dissenso creativo».

A quattro decenni di distanza dalla cacciata del feroce dittatore Anastasio Somoza, il Nicaragua è una pentola a pressione. Daniel Ortega, tra gli ex guerriglieri che – ispirati dalla figura del generale nazionalista César Augusto Sandino – abbatterono il regime, ha dismesso la mimetica. Per indossare i panni del caudillo e trasformarsi – dicono gli oppositori – in un nuovo Somoza. Tornato al potere nel 2007, dopo il convulso decennio post-rivoluzionario, il leader non ha esitato ad allearsi con ex nemici scomodi, modificare la Costituzione, imporre i propri familiari nelle principali istituzioni, pur di non lasciarlo.

Grazie al flusso di denaro del defunto Hugo Chávez, il presidente ha abbinato politiche neoliberiste ad aiuti a pioggia per mantenere il consenso. L’equilibrio precario – sorretto dal sostegno del potente settore imprenditoriale – ha resistito fino al 18 aprile 2018 quando una protesta contro la riforma previdenziale è diventata un’insurrezione civile contro il governo. Ortega ha ripreso il controllo facendo 325 morti, 50mila esiliati, 700 prigionieri politici di cui 83 ancora dietro le sbarre. Almeno in apparenza. Dietro l’anomala normalità dello stato d’assedio permanente, il Paese ribolle. Finiti i soldi venezuelani, isolato internazionalmente, criticato dagli stessi intellettuali che sostennero la Rivoluzione, abbandonato dagli ex compagni d’armi, Ortega vaga «nel suo labirinto». Incapace di aggrapparsi all’unico filo d’Arianna: il dialogo con l’opposizione, accompagnato dall’Organizzazione degli Stati americani (Osa) e dal nunzio Waldemar Stanislaw Sommertag e incagliato sul rifiuto del governo a concedere elezioni libere e anticipate.

Quello attualmente paralizzato è il secondo intento negoziale: il primo s’è interrotto un anno fa, sull’onda della brutale repressione. Sette mesi dopo, il 27 febbraio, è cominciata la seconda trattativa che ha portato al rilascio, in otto gruppi di gran parte dei manifestanti arrestati. Il 16 maggio, c’è stata l’ultima riunione tra i delegati del governo e quelli dell’opposizione. Quest’ultima, riunita nell’Alleanza civica, ha lasciato il tavolo per il rifiuto di Ortega di affrontare il nodo del voto anticipato. Perché non è disposto a farsi da parte. Quarant’anni dopo la fine dalla dittatura di Somoza.

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