domenica 17 febbraio 2019
Da aprile sono esplose le proteste contro Daniel Ortega, al potere da 11 anni. Il governo ha messo in atto una feroce repressione. Ma gli insorti resistono pacificamente
Il cardinale Leopoldo Brenes (al centro), arcivescovo di Managua, e il vescovo Silvio Baez (a destra) in marcia davanti alla basilica di San Sebastian, a Diriamba, per liberare un gruppo di paramedici e missionari francescani assediati nella chiesa da sostenitori del governo il 9 luglio scorso (Ansa)

Il cardinale Leopoldo Brenes (al centro), arcivescovo di Managua, e il vescovo Silvio Baez (a destra) in marcia davanti alla basilica di San Sebastian, a Diriamba, per liberare un gruppo di paramedici e missionari francescani assediati nella chiesa da sostenitori del governo il 9 luglio scorso (Ansa)

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«Qui possiamo parlare». Capelli raccolti e fisico minuto, Enrieth scruta il locale con un impercettibile movimento della testa. Poi si dirige sicura verso il tavolino sulla terrazza, a una «giusta distanza» dal bancone e dalle orecchie del personale. Là, affondata sulla sedia di plastica, sembra una studentessa qualunque intenta a ingannare il tempo al bar dell’università. Solo un dettaglio stona: la borsa da viaggio vicino ai piedi. «In caso debba fare un trasferimento… », spiega. In sette mesi, ne ha fatti dieci. «Per precauzione – aggiunge –. Non si può stare troppo a lungo in una “casa sicura”». Non dice di che cosa si tratti. Tutti in Nicaragua lo sanno anche se nessuno ne parla. Dal 18 aprile, quando un’ondata di proteste pacifiche ha minacciato il potere ultradecennale di Daniel Ortega, il Paese si è come duplicato. In superficie, scorre l’anormale normalità imposta dal governo, fatta di agenti antisommossa ad ogni angolo, strade deserte al calar del tramonto, murales rivoluzionari appena ripitturati. Sotto la pelle, invece, s’agita il «Nicaragua clandestino».

Quello dove vive Enrieth. Vi è sprofondata il 25 agosto quando la polizia l’ha fermata mentre andava a un corteo. «Sono stata fortunata: mi hanno rilasciato. Non avevano capito che fossi nel movimento studentesco. Ormai, però, ero segnata: avrebbero fatto altre ricerche e sarebbero tornati ad arrestarmi. Così mi sono “dileguata”». La giovane, cioè, s’è rifugiata nel circuito segreto creato per salvare chiunque abbia partecipato alle manifestazioni. Una “caccia” silenziosa e implacabile che procede al ritmo di sei-sette arresti al giorno. Anzi, alla notte. Il “popolo della rivolta”, dunque, si nasconde nelle case sicure. Famiglie «al di sopra di ogni sospetto» alloggiano uno o più perseguitati. In attesa che le acque si calmino. O dell’espatrio. Ce ne sono migliaia e migliaia mimetizzate sul territorio nazionale. Ad aprire la porta, sono persone di ogni condizione sociale. Inclusi molti dipendenti pubblici, con tanto di tessera del Fronte sandinista, il partito di Ortega. «Non hanno potuto partecipare alla rivolta per non perdere il posto. Hanno, così, trovato un altro modo per aiutare. Sanno di rischiare molto. Per questo, dobbiamo rispettare scrupolosamente le “regole di sicurezza”».

Ovvero niente telefono con Gps, niente visite a domicilio, spostamenti limitati e mai sui mezzi pubblici, appuntamenti in luoghi sicuri. L’Università centroamericana, guidata dai gesuiti, lo è. Almeno all’interno. Nei giorni caldi delle dimostrazioni, l’ateneo ha dato asilo alle persone in fuga dalle cariche di polizia e gruppi paramilitari. Tale scelta è valsa al rettore, padre José Idiáquez, una sfilza di minacce di morte. L’intera Università è nel mirino, come dimostrano le pattuglie piazzate nei paraggi e il taglio di un terzo del finanziamento pubblico. «Con quei soldi coprivamo le borse di studio per i ragazzi con poche risorse, il 60 per cento dei nostri novemila iscritti – afferma il vicerettore, Jorge Huete –. Quest’anno non abbiamo potuto darne di nuove». Una punizione esemplare per quella che viene considerata una delle “fucine” della protesta. «Molti leader studenteschi vengono dai nostri corsi – aggiunge il vicerettore –. Perché l’Uca è da sempre uno dei pochi spazi di dibattito pubblico».

La scintilla della rivolta, in realtà, è scoccata a un centinaio di chilometri di distanza da Managua: a León, «prima capitale della Rivoluzione», si legge sul monumento commemorativo. Sandinista, è scontato. La città fu liberata dalla feroce dittatura di Anastasio Somoza il 7 luglio 1979, 12 giorni prima della capitale. Là, il 18 luglio successivo, si riunì per la prima volta la giunta rivoluzionaria. Di cui faceva parte anche un giovane Daniel Ortega, combattente del movimento nazionalista, socialisteggiante e umanista, ispirato agli ideali dell’eroe nazionale, Augusto Sandino. Quarant’anni dopo, Ortega somiglia, però, ogni giorno di più al suo vecchio nemico Somoza. «Come lui, dal ritorno in sella, nel 2007, ha usato ogni mezzo per restare al potere. Ha cooptato istituzioni e società civile, mettendo i propri familiari – a partire dalla moglie e vice Rosario Murillo – nei posti chiave dell’amministrazione. La sua politica è stata populista nella retorica, neoliberale nei fatti. Non ha realizzato alcun cambiamento strutturale che facesse smettere al Nicaragua di essere il Paese più povero d’America dopo Haiti», sostiene Manuel Ortega Hegg, sociologo, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze e vecchio militante sandinista. «Appunto: sandinista non danielista – specifica –. Il modello Ortega è finito nel 2017 con la bancarotta di Caracas, suo generoso sostenitore. L’economia orteguista aveva necessità di “padrini” per crescere. Ora non li ha più».

Il domino venezuelano e la conseguente crisi – economica e soprattutto politica – ha trasformato un corteo di anziani di León contro il taglio delle pensioni nella «rivoluzione disarmata di aprile», in grado di tenere il governo sotto scacco per i tre mesi seguenti. Mentre Ortega gridava al «golpe», la gente marciava con la foto di Alvarito Conrado, 15enne di Monseñor Lezcano, quartiere povero di Managua e tradizionale roccaforte sandinista, assassinato dalla polizia il 20 aprile. «Distribuiva bottiglie d’acqua ai manifestanti quando un proiettile l’ha colpito alla gola. È stato un cecchino degli agenti, erano loro gli unici armati – racconta il padre, anche lui Álvaro –. Gli amici l’hanno portato nel vicino ospedale pubblico di Cruz Azul ma i medici si sono rifiutati di curarlo: avevano ricevuto ordini tassativi dal governo. Quando è arrivato nella clinica Battista era ormai dissanguato…». Le ultime parole di Álvarito – «non posso respirare» – sono diventate il grido collettivo di un popolo soffocato dal pugno di ferro orteguista. Quest’ultimo si è abbattuto con tutta la sua forza da luglio, quando è scattata la grande “Operazione pulizia”.

Il tabernacolo della Divina Misericordia trafitto dai proiettili è il monumento alla memoria di quei giorni sanguinosi. «Per oltre dodici ore, agenti e paramilitari ci hanno sparato addosso – racconta il parroco, padre Raúl Zamora –. All’alba del 13 luglio, era cominciato lo sgombero violento dell’Università autonoma nazionale (Unam), occupata dai ragazzi. Dato che si trova alle spalle della parrocchia, mi sono precipitato all’ateneo per evitare il massacro: era un campo di battaglia. Ho fatto su e giù in auto non so più quante volte per portare fuori gli studenti e li ho accolti in chiesa. Così si sono scagliati su di noi». Solo l’intervento del cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, e del nunzio, Waldemar Stanisaw Sommertag, andati fisicamente a prendere gli assediati, ha impedito la mattanza. Almeno quella volta. «Quaranta di quei giovani sono ora in cella. Uno è stato arrestato subito dopo aver rilasciato un’intervista. Il resto è stato espulso dalle facoltà», conclude il sacerdote. Da allora, le maglie della repressione si sono strette fino a stroncare i cortei. Non, però, la resistenza che, con una buona dose di fantasia, riaffiora di tanto in tanto dal «Nicaragua clandestino». A volte è un «Libertà» urlato dall’auto. Altre è una bandiera biancoceleste – quella nazionale, trasformata in emblema dell’anti-orteguismo – sopravvissuta al “repulisti”. Altre ancora è un palloncino ribelle con i colori nazionali lanciato dal bus e sfuggito all’ordine di sgonfiamento compulsivo imposto agli agenti. «Almeno – sussurra uno dei disturbatori – sanno che ci siamo». Domani saranno 300 giorni dall’inizio della «rivolta», Ortega è ancora lì.

1.Continua

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