domenica 11 marzo 2018
Coprifuoco nel Nord-Ovest e nel Sud-Ovest, tensione alle stelle. Le zone anglofone, con il 20% della popolazione, assicurano il 60% della crescita economica. E accusano le amministrazioni francofone
Una fila di sfollati in Camerun (foto Matteo Fraschini Koffi)

Una fila di sfollati in Camerun (foto Matteo Fraschini Koffi)

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«Rallenta e fermati subito!», grida più volte il soldato puntando il suo fucile contro il bus che avanza lentamente. «Non hai visto che c’è un posto di blocco – continua in modo aggressivo guardando minaccioso l’autista –? Tutti i passeggeri giù, tirate fuori i documenti, svelti!». Sono giorni di alta tensione nell’area anglofona del Camerun, dove dal 2016 si sta consumando un conflitto definito dagli esperti «a bassa intensità». Le regioni del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, popolate dal 20 per cento dei 23 milioni di camerunesi, sono state messe sotto coprifuoco. I mezzi privati possono viaggiare solo durante il giorno e le moto sono totalmente bandite dalle strade di alcuni distretti giorno e notte.

«Lo facciamo per ragioni di sicurezza», recitava venerdì scorso una nota di Adolphe Lele Lafrique, governatore del Nord-Ovest, dopo che tre gendarmi e una ventina di separatisti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco nella località sud-occidentale di Mundemba Ndiam: «Chiunque non rispetterà tali misure sarà punito secondo la legge e le norme in vigore ». Dalla capitale, Yaoundé, gli ordini sono chiari: «Fermare a tutti i costi qualsiasi moto federalista o indipendentista». Nel 2017, il presidente camerunese, Paul Biya, ha bloccato l’accesso a Internet nella zona anglofona per cinque mesi. Violenze, reazioni e repressioni sembrano però portare il Paese verso un’imminente guerra civile.

«La popolazione anglofona si sente marginalizzata», spiega ad Avvenire, nella cittadina sud-occidentale di Limbe, l’avvocato Simon Munzu, ex funzionario delle Nazioni Unite. «Le nostre amministrazioni sono dominate dalla presenza dei francofoni. Poiché l’identità anglofona sta subendo un processo di assimilazione forzata nel sistema francofono – continua Munzu –, la gente ha sempre più paura ed è decisa a ribellarsi per tornare al sistema federale o lottare per l’indipendenza». La popolazione anglofona sta infatti denunciando la propria emarginazione in maniera sempre più aggressiva. «Siamo stufi di avere giudici e tribunali che si basano su un sistema giudiziario francese invece di quello inglese – afferma Eric, proprietario di un modesto ristorante a Buea, capoluogo della regione del Sud-Ovest –. Noi parliamo inglese e ci sentiamo più affini al sud-est della Nigeria rispetto al Camerun francofono».

I primi a manifestare nell’ottobre del 2016 sono stati gli avvocati, proclamando uno sciopero seguito poi da quello degli insegnanti. Mentre i primi richiedevano leggi basate sul diritto comune britannico, i secondi protestavano contro il sistema educativo francese e la nomina di francofoni nelle posizioni più privilegiate. Da allora, nessuno sa con precisione quanti morti abbia provocato tale conflitto. «Alcune decine», afferma il governo, mentre gli attivisti della società civile parlano di «centinaia». Tutti sono però d’accordo che «nell’ultimo anno almeno 24 agenti delle forze di sicurezza sono stati uccisi».

Lo scorso gennaio, invece, sono state arrestate in Nigeria decine di funzionari secessionisti, tra cui il leader, Sisiku Ayuk Tabe. Alcuni sono stati scarcerati poco dopo, ma di altri non si hanno più notizie. «Una grave violazioni dei diritti umani elementari», denuncia Amnesty International da tempo. Molti hanno infatti paura di essere rapiti e di scomparire nel nulla. Le località più “calde” nella regione del Sud-Ovest sono Buea, Kumba, Mamfe, e Kupe-Muanenguba. Mentre nel Nord-Ovest, le aree più a rischio sono localizzate nella capitale Bamenda e in alcuni villaggi come Jakiri e altri vicino alla frontiera nigeriana. «Le forze di sicurezza hanno bruciato interi villaggi e costretto molta gente a lasciare le proprie case – ci assicura Fon Nsoh, coordinatore di Cominsud, un gruppo che unisce varie organizzazioni della società civile –. La cosa più grave è che i bambini non vanno più a scuola, per questo chiediamo alla comunità internazionale di aiutarci». Anche la Chiesa cattolica locale ha subito un grave impatto a causa delle violenze. «Parrocchie come quelle a Bolifamba, Muea, e Ekona, hanno visto il numero dei loro fedeli dimezzarsi – afferma un sacerdote anglofono – . I nostri parrocchiani non si sentono più al sicuro e scappano in Nigeria». Nei circa 220 chilometri che separano Buea da Bamenda sono almeno 15 i posti di blocco presidiati da agenti di polizia e soldati armati di Kalashnikov. Spesso i viaggiatori sono insultati, picchiati o devono pagare il “pizzo” per proseguire il tragitto. A Bamenda, invece, le forze di sicurezza pattugliano ogni angolo della città.

«Oggi è meglio che faccia colazione dentro il ristorante, non sul balcone – consiglia una cameriera del Mondial Express Hotel –. C’è una brutta atmosfera e potrebbero sparare». Ogni lunedì Bamenda diventa una «città fantasma»: un appellativo giustificato dalla chiusura di negozi, banche, mercati, e dalla difficoltà per i mezzi privati di girare.

John Fru Ndi, principale oppositore del leader Biya e a capo del Fronte sociale democratico (Sdf), è originario di Bamenda e ha annunciato lo scorso febbraio che non si candiderà alle elezioni presidenziali di ottobre: «Il governo e l’esercito sono i principali responsabili di questa crisi – sostiene –. Non hanno alcuna intenzione di aprire un dialogo sincero». Le due regioni occidentali, ricche di petrolio, gas, legname e prodotti agricoli, assicurano il 60% del Pil camerunese, sono troppo importanti per Yaoundé. Gran parte degli anglofoni sta quindi rivolgendo le proprie speranze verso la comunità internazionale e le Nazioni Unite.

«Sappiamo che la gente vorrebbe un nostro maggiore coinvolgimento nella mediazione del conflitto – afferma un funzionario dell’Onu nel Paese –. Noi non possiamo però fare niente poiché le autorità ci hanno espressamente detto di non immischiarci in una crisi interna».

In una mossa quasi machiavellica, Biya ha appena nominato due ministri anglofoni: Nalova Lyonga (all’Istruzione secondaria) e Atanga Nji Paul (all’amministrazione territoriale), entrambi ferventi sostenitori del presidente camerunese. «Non abbiamo alcuna voglia di negoziare – ha affermato un comandante militare di stanza nel Camerun occidentale a un’agenzia umanitaria in loco –. Secondo la nostra strategia ci vorranno infatti due o tre anni per soffocare con le armi la rivolta anglofona».


Una profonda spaccatura nata dalla Prima Guerra mondiale

La crisi identitaria tra Camerun francofono e anglofono è riaffiorata nel 2016. Le sue radici, però, sono ben più profonde. È in questa zona dell’Africa che circa un secolo fa, con la sconfitta nella Prima Guerra mondiale della Germania, ex potenza coloniale del “vecchio” Camerun, iniziarono a germogliare i semi della divisione territoriale. Nel 1919 la Lega delle Nazioni affidò una parte del Camerun ai francesi e un’altra agli inglesi, coloni della vicina Nigeria. Il desiderio per un’autonomia anglofona camerunese rimase però vivo. Nel 1961, un anno dopo l’indipendenza, venne quindi adottata una Costituzione federale. Ahmadou Ahidjo divenne così il primo presidente della Repubblica federale del Camerun. John Ngu Foncha, leader politico originario dell’allora “Camerun meridionale britannico”, divenne primo ministro del “Camerun Occidentale” e vice presidente. Nel 1972, però, un referendum approvò la “Repubblica unita del Camerun”. Tale mossa, oltre alla continua marginalizzazione dell’area anglofona da parte della capitale Yaoundé, fece crescere il malcontento locale. Poco dopo la salita al potere di Paul Biya nel 1982, il Paese cambiò ancora una volta in “Repubblica del Camerun”, così da annullare qualsiasi riferimento a un possibile federalismo. Con gli anni Novanta la rabbia degli anglofoni sfociò in varie proteste e nella richiesta, mai soddisfatta, di un referendum per l’indipendenza. Nel 2001, le forze di sicurezza sedarono nel sangue altre manifestazioni. Fino ad oggi, il governo non sembra avere l’intenzione di dialogare con le differenti fazioni.

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