martedì 30 gennaio 2018
Colpo di mano del capo dell'Assemblea. Vietate anche le connotazioni politiche. La Conferenza episcopale: i deputati rappresentano il popolo e il popolo non è laico
Una riunione del Parlamento francese (Ansa)

Una riunione del Parlamento francese (Ansa)

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È lecito costringere un parlamentare a vestirsi in Aula secondo le stesse regole di “neutralità” rispettate da un insegnante in classe o da un medico in corsia d’ospedale? Poteva restare un quesito cervellotico fra i tanti partoriti dall’immaginazione degli accademici. Ma in Francia, la questione è ormai serissima, dato che il presidente dell’Assemblea nazionale, François de Rugy (ex verde salito sul carro macroniano), ha appena deciso di proibire nell’emiciclo i segni religiosi e gli altri simboli “vistosi” che denotano specifici orientamenti di pensiero.

La nuova regola, approvata non dall’intera Aula ma solo dal consiglio direttivo di 22 membri (Bureau) che organizza i lavori, stabilisce che l’abbigliamento «non dovrà divenire un pretesto per la manifestazione di qualunque opinione: in particolare, è dunque proibito portare qualsiasi segno religioso vistoso, un’uniforme, un logo o dei messaggi commerciali o degli slogan di natura politica». Insomma, l’espressione dei deputati dovrà restare «esclusivamente orale». Potrebbe rimanere un ricordo lontano ciò che avvenne, ad esempio, fra il 1945 e il 1951, quando l’abbé Pierre, eletto deputato democristiano, si esprimeva in abito religioso. Per il momento, pur incontrando delle obiezioni da parte di deputati di vari schieramenti, la misura sembra essersi insinuata in modo felpato senza suscitare un’ondata vera e propria di proteste. Come se la “Repubblica in cammino” introdotta dal nuovo inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, potesse divenire pure quella delle manovre abili operate con guanti di velluto. In proposito, il presidente dell’Assemblea nazionale e il Bureau hanno impiegato un’accortezza sottile: il nuovo principio non fa parte del «regolamento» in senso stretto della Camera, sottoposto a un controllo obbligatorio di non incostituzionalità (ad opera del Consiglio costituzionale).

Rientra in un corollario (instruction générale) che sfuggirebbe in teoria a questo controllo, anche se la questione resta in realtà dibattuta fra i giuristi. Non pochi osservatori interpretano già la mossa come un nuovo grimaldello impiegato dall’ala più laicista della maggioranza per estendere subdolamente ancor più il perimetro di una laïcité abrasiva vecchio stampo, a dispetto dei proclami ufficiali di “apertura” dello stesso presidente della Repubblica e di altre porzioni della sua maggioranza. Monsignor Olivier Ribadeau-Dumas, segretario della Conferenza episcopale francese, ha reagito alla decisione in questi termini, su Le Monde: «Se vi è un luogo in cui si deve discutere di tutto, questo è proprio l’Assemblea nazionale. I deputati rappresentano il popolo, e il popolo non è laico».

Lo stesso “Osservatorio della laicità”, un organismo entrato in servizio nel primo anno della scorsa legislatura socialista, ha evidenziato delle chiare obiezioni, sia pure con toni misurati, ricordando in particolare che i deputati «non sono neutri, per definizione ». Inoltre, il principio di neutralità è previsto per i «soli funzionari statali e assimilati », mentre il divieto dei segni religiosi riguarda solo gli studenti delle scuole pubbliche fino al liceo, «per via della loro giovane età».

C’è adesso chi pensa che il presidente dell’Assemblea nazionale e il Bureau corrano il rischio di farsi bacchettare prima o poi dal Consiglio costituzionale, qualora la misura venisse comunque equiparata nella sostanza a quelle del regolamento vero e proprio. In ogni caso, dopo la manovra di François de Rugy, l’era Macron appare già chiaramente tutt’altro che immune dalle tentazioni politiche laiciste del passato.

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