sabato 14 dicembre 2019
La linea cauta ha prevalso sull’ambizione di una road map complessiva, come voleva la presidenza cilena. L’evento, però, segna un prima e un dopo nella crescita di consapevolezza della società
È scritto "Now" ("adesso") su un pannello alla Conferenza Onu sul clima a Madrid. Ma per gli interventi si deve ancora attendere

È scritto "Now" ("adesso") su un pannello alla Conferenza Onu sul clima a Madrid. Ma per gli interventi si deve ancora attendere - Ansa

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La Conferenza Onu sul clima di Madrid, la Cop25, prolungherà oggi i suoi lavori dopo che non è stato raggiunto ieri sera un accordo sul documento finale. I punti di disaccordo, come è apparso durante la sessione plenaria di ieri, sono i finanziamenti ai Paesi più poveri per affrontare i danni provocati dai cambiamenti climatici e le regole per un mercato globale del carbonio.

Un accordo ai tempi supplementari, per non lasciare in bocca l’amaro sapore del fallimento, nell’anno chiave per la lotta contro il cambiamento climatico. Nel 2019, grazie all’adolescente Greta Thunberg, il mondo, con l’Unione Europea in testa, ha preso coscienza dell’emergenza climatica e tenuto a battesimo il New Green Deal, la sfida del XXI secolo. Il “testo di decisioni’ – che pone fine a 13 giorni di negoziati a Madrid fra i 197 paesi riuniti alla Conferenza Onu sul clima (Cop25), di transizione a quella del 2020 a Glasgow – non è il massimo dell’ambizione.

Ma è l’unico possibile, frutto di limature e compromessi andati avanti l’intera notte, per un consenso minino. Sul resto, tutto slitta all’anno prossimo. Sui punti chiave è stato difficile trovare l’accordo a cui puntava la presidenza cilena del vertice. Una road map per ridurre a 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura, rispetto a quella preindustriale, fissato dall’Accordo di Parigi nel 2015, che tenga conto dei diversi report – incluso l’ultimo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) – in cui è prescritta una diminuzione annua, dal 2020 al 2030, del 7,6 per cento, per restare sotto la soglia limite. L’aggiornamento, innanzitutto, dell’impegno nella riduzione delle emissioni di carbonio nei Contributi nazionali (NDC), i piani climatici che ogni Paese deve presentare all’Onu. Un aumento del Green Climate Fund, il fondo per i Paesi in via di sviluppo e per la transizione energetica, rimasto molto lontano dall’obiettivo di 100 miliardi l’anno. E, soprattutto, la regolazione dei mercati per la compravendita di quote di carbonio fra Stati, l’art. 6 dell’Accordo di Parigi, uno dei nodi rimasti finora aperti. Paesi come Arabia Saudita, Iran, Siria, Venezuela, India o Cina, hanno preteso che il documento finale non cambiasse «né una parola o una virgola» del patto di Parigi.

L'Ego

Mentre Brasile, Australia e gli Stati Uniti di Trump, con un piede già fuori dal patto, si sono opposti all’adozione del termine «emergenza climatica» e a un aumento dell’ambizione riflessi nel testo finale, oltre che «sfilarsi» dal Green Fund. L’Arabia e Paesi del Golfo, fortemente dipendenti dal petrolio, hanno osteggiati i riferimenti alle raccomandazioni degli scienziati. «Sono le ore decisive per sapere se la Cop risponderà alla scienza e alle persone che reclamano azione climatica o permetterà che dominino i Paesi contaminanti», l’avvertimento di Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International, che esigeva l’inclusione della protezione dei diritti umani e ha puntato il dito contro «Australia, Brasile o Arabia Saudita, capaci solo di distruggere l’accordo di Parigi». Australia, Brasile e Stati Uniti sono stati segnalati come responsabili del blocco sull’art. 6, le garanzie ambientali e i diritti umani. Fra i “cattivi ragazzi”, la Cina, l’India o il Giappone che, con 12 nuovi impianti a carbonio, ha difficoltà a tenere fede agli impegni del suo piano nazionale. Sul fronte opposto, le isole Marshall, il Belize, le isole caraibiche e del Pacifico, le più esposte alle catastrofi climatiche e quelle che meno inquinano.

Con tutti i limiti, impossibile non riconoscere che la Cop25 marca una frontiera temporale fra un prima e un dopo nella crescita di consapevolezza dell’emergenza climatica dichiarata dalla scienza, almeno nell’opinione pubblica globale. Il 2020 sarà l’anno della svolta, quando questa coscienza globale verrà sottoposta alla verifica effettiva, nel decennio successivo, decisivo perché le nostre società industriali avviino la transizione per mantenere la temperatura sotto soglie tollerabili. «E l’Italia svolgerà un ruolo chiave, perché oltre alla pre-Cop preparatoria a Glasgow, ospiterà a Milano la CopYoung, in cui i giovani di 198 paesi del mondo si incontreranno per poi portare la loro dichiarazione e la loro visione del futuro agli Stati», assicura il ministro per l’Ambiente, Sergio Costa. «È molto importante che l’Europa stia parlando con una voce unica », ha rilevato Costa. «La decisione della Ue di segnare l’obiettivo della neutralità di emissioni per il 2050 mi riempie di speranza, perché molti altri Paesi, come la Corea, hanno seguito l’esempio», ha sottolineato Laurence Tubiana, una degli architetti dell’Accordo di Parigi. «Cinque anni fa era un tema tabù».

Mentre la Cop25 è ai supplementari, è già avvenuto il passaggio di consegne alla Cop26, fra suoni di cornamuse e l’impegno della Gran Bretagna, nel giorno della vittoria di lunghezza di Boris Johnson e la Brexit sicura. «La sfida di affrontare la crisi climatica è prioritaria. Con l’Europa, prenderemo le redini per avanzare con la rapidità e l’ambizione richieste, fondamentali per le nuove generazioni », ha commentato ad Avvenire l’ambasciatore britannico in Spagna, Hugh Elliot. Frontiera temporale, ma anche il tentativo di superare quella delle disuguaglianze, fra Nord e Sud, e quelle create dall’ultraliberalismo economico, perché «senza giustizia sociale, non c’è giustizia climatica», come hanno rivendicato molti gli attivisti.

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