lunedì 22 agosto 2022
Vietate le iniziative pubbliche nel giorno dell'Indipendenza. Zelensky: qualcosa di molto brutto potrebbe accadere. Il conflitto sembra in stallo. E i negoziati non decollano
I carri armati russi colpiti in esposizioni sulla via Khreshchatyk di Kiev

I carri armati russi colpiti in esposizioni sulla via Khreshchatyk di Kiev - Reuters

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Il nemico alle porte, ancora. Alla vigilia del sesto mese, la guerra sembra aver terminato il suo sanguinoso giro per tornare alla casella di partenza: Kiev. Mosca minaccia direttamente la capitale, seppur non con le armate ormai ritirate e concentrate lungo il fronte sud-orientale. Con gli attacchi nella regione di Odessa con i Kalibr, i missili ipersonici, di ieri, il Cremlino ha ribadito la possibilità di colpire ovunque. E il governo ucraino ha colto il messaggio.

Da qui la decisione del presidente, Volodymyr Zelensly di proibire le manifestazioni pubbliche domani, giorno in cui ricorre il trentunesimo anniversario dell’Indipendenza dalla Russia che, per ironia della storia, coincide con il primo semestre di conflitto. Fino a giovedì, sono, inoltre, vietati i raduni di grandi gruppi. Mentre l’amministrazione ha esortato i cittadini a restare a casa il più possibile. «Qualcosa di particolarmente brutto potrebbe accadere», ha detto Zelensky. Al netto delle opposte retoriche, la temperie bellica – che Vladimir Putin si ostina a definire «operazione speciale» – sembra entrata in una fase di stallo. Uno stallo cruento, però: oltre 5.500 civili sono stati uccisi, secondo le Nazioni Unite, tra loro oltre novecento bambini.

Più complicato avere cifre esatte dei morti militari: Kiev parla di 9mila nelle file dei propri uomini e 45mila in quelle russe. Mosca tace. Nel frattempo, le truppe del Cremlino sferzano il Sud e l’Est con raid continui su Mykolaiv, Kharkiv, Odessa e, da qualche settimana, soprattutto Zaporizhzhia. Area quest’ultima particolarmente sensibile perché là si trova la maxi-centrale atomica: proprio nella notte tra domenica e lunedì, l’aeronautica russa ha colpito Nikopol, lungo la riva sud del Dnepr, a ridosso dell’impianto. Fonti di intelligence ucraine, inoltre, sostengono che Mosca starebbe preparando un grande incendio alla struttura intorno alla quale sarebbero state già piazzate grandi quantità di carburante, al fine di «provocare» Kiev. Eppure la Russia, che da marzo controlla la centrale, continua a negare e accusa le forze ucraine di colpirla intenzionalmente. Giovedì, l’affaire Zaporizhzhia sarà discussa in una sezione ad hoc della Duma, al termine della quale dovrebbe essere adottata una risoluzione sui rischi per la sicurezza e una dichiarazione inviata alla Nazioni Unite di cui Putin ha accettato l’ispezione. Quest’ultima sarà realizzata dall’Agenzia atomica internazionale (Aiea). La missione, secondo quanto affermato dal presidente dell’ente ucraino per il nucleare Petro Kotin, è prevista a breve, entro i prossimi dieci giorni.

Quello su Zaporizhzhia è uno dei pochi spiragli diplomatici aperti in sei mesi di ostilità. La linea rossa su Donbass e Crimea appare inamovibile. Da aprile, Mosca ha ridimensionato i propri obiettivi. L’occupazione lampo del “vicino minore” si è trasformato in un conflitto localizzato sulla sponda destra del Dnepr e finalizzato alla conquista della regione limitrofa, anello di congiunzione con la Crimea. Nonostante il massiccio dispiegamento di artiglieria, però, l’occupazione si è fermata all’oblast di Lugansk. E anche le isole di terra controllate nella zona di Donetsk e Kherson risultano instabili, sia per la resistenza interna sia per la controffensiva, lanciata da Kiev a partire dall’estate. In particolare, le forze ucraine puntano alla riconquista di Kherson, unico bastione nemico sulla riva occidentale del Dnepr. Finora, però, non ci sono riusciti. E, giorno dopo giorno, la stanchezza aumenta sulle spalle dei contendenti. Entrambi sanno di dover fare in fretta ma sul terreno sono impantanati e le trattative diplomatiche non decollano. Anche ieri, il rappresentante di Mosca all’Onu, Gennadij Gatilov ha escluso, al momento, una soluzione negoziata. Lo stesso ha fatto Zelensky, specie se Mosca insisterà con l’idea dei processi-spettacolo a Mariupol nei confronti dei combattenti del battaglione Azov catturati. Al di là delle roboanti affermazioni, la comunità internazionale sembra incapace di trovare un canale di comunicazione tra i contendenti.

Finora, le manovre, non proprio disinteressate del leader turco Recep Tayyb Erdogan sono caduti nel vuoto. E l’Onu è paralizzata dal sistema dei veti. L’Europa, in particolare, fa fatica a ritagliarsi un ruolo nella contesta, schiacciata, da un lato, dall’attivismo statunitense e dall’altra dall’ingombrante imperialismo russo. Al di là della possibilità di addestrare i militari ucraini, ventilata ieri dall’alto rappresentante Josep Borrell, non si vedono sviluppi. Forse, perché qualcosa si muova, si dovrà attendere novembre quando le elezioni di Midterm consentiranno a Joe Biden di comprendere su quali forze potrà contare. Nel frattempo, la lista dei caduti e delle devastazioni continuerà ad aumentare.

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