Kabila reprime ancora per restare in sella, nel silenzio del mondo
lunedì 1 gennaio 2018

C’è un filo rosso, come il sangue, che lega il dittatore congolese dell’era post-coloniale Mobutu Sese Seko all’attuale “presidente” Joseph Kabila. Hanno sempre represso ogni opposizione e perpetrato il potere con elezioni “governate” e con l’utilizzo dell’esercito come mezzo di pacificazione di qualsiasi protesta. Come è avvenuto nell’ultimo giorno dell’anno che si è chiuso: morti, arresti e feriti. Spari ad altezza d’uomo su una marcia guidata dai sacerdoti di 150 diocesi. E l’anno che si era aperto con la speranza che l’accordo raggiunto a San Silvestro potesse portare alla fine di un regime trasmesso di padre in figlio: perché Joseph Kabila è semplicemente succeduto a suo padre, Laurent-Désiré, assassinato il 16 gennaio del 2001 dopo aver a sua volta scalzato Mobutu nel 1997.

La speranza, come il Congo ci ha abituato, è annegata però esattamente un anno dopo nel sangue. Quello dei religiosi, dei fedeli, dell’unica entità (la Chiesa) che dopo aver mediato quell’accordo di transizione si è battuta per il suo rispetto. Fino alla convocazione, domenica, della marcia per segnare il mancato rispetto degli accordi. Marcia vietata dal potere, per «ragioni di ordine pubblico». E repressa dallo stesso potere e per le stesse ragioni».

Nel Paese di un vescovo martirizzato a Bukavu durante la guerra per l'ascesa al potere di Laurent Kabila (Christophe Munzihirwa) e di una Chiesa che un tutt’uno con la società civile - soprattutto nel depredato, abbandonato e insanguinato Kivu, nell’Est - un eccidio come quello di domenica rischia però di restare ancora una volta impunito. Come avvenuto in questi anni per ragioni di interesse nel Kivu o nel Kasai.
Un silenzio del mondo. Lo stesso mondo rappresentato alle Nazioni Unite e che paga nella Repubblica democratica del Congo il «contingente di pace» più costoso della sua storia: 1,14 miliardi di budget annuo per garantire la presenza di 18mila caschi blu e 4.000 civili che forniscono la logistica ai reparti militari.
Le stesse Nazioni Unite che si sono limitate a sterili «prese di posizione» e «inviti a garantire la transizione democratica» quando il presidente Kabila prima ha stracciato l’accordo sottoscritto un anno fa con la mediazione della Chiesa a Kinshasa, poi ha schierato i soldati a più riprese per fermare le contestazioni e alla fine ha perpetuato la sua permanenza sul trono spostando le elezioni fissate nel 2016 al 2019. Forse.
Tanti dubbi, infatti, sul rispetto di una scadenza che difficilmente potranno in qualche modo “onorare” le opposizioni più impegnate a evitare il carcere che a preparare programmi di alternativa al presidente nato 46 anni fa a Hewa Bora che, (maledetta ironia della sorte), in swahili significa «aria fresca».

Un presidente che in questi anni ha saputo sfruttare la forza del suo Paese: le risorse. Metalli rari, utilizzati nell’industria dei semiconduttori, diamanti, petrolio. Risorse che aveva prima arricchito e poi condannato il “filo-francese” Mobutu scalzato da quel (filo-multinazionali americane) Lauret-Désiré padre dell’attuale presidente e «più avvezzo alle hall degli alberghi occidentali che alla guerra di liberazione», come l’aveva dipinto Che Guevara che, agli inizi degli anni ’60, da quelle parti aveva anche combattuto. Perché, alla fine, la storia e la maledizione del Congo è tutta qui: le sue risorse. Da sempre.

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