venerdì 22 luglio 2022
Molti giovani preferiscono lasciare la Russia. «Come la maggior parte qui, me ne sono andata perché mi sono espressa contro il conflitto in Ucraina ed era un rischio restare»
Istanbul è diventata da mesi rifugio  per molti russi, in prevalenza giovani, che hanno deciso di fuggire dalla patria dopo l’invasione dell’Ucraina

Istanbul è diventata da mesi rifugio per molti russi, in prevalenza giovani, che hanno deciso di fuggire dalla patria dopo l’invasione dell’Ucraina - Ghirardelli

COMMENTA E CONDIVIDI

A bordo del volo di linea che l’ha portata via da Mosca, Aleksandra Lykova, 21 anni, ha iniziato a sentire i nervi distendersi quando l’aereo si è sollevato dalla pista. «Nella mia mente ho pensato: ecco, ora non sono più in Russia». Lo racconta al tavolo di un locale accanto a una moschea nel quartiere di Fatih, a Istanbul, dove condivide un grande appartamento con altri otto connazionali russi. Tutti apertamente critici verso l’invasione dell’Ucraina, dunque tutti costretti ad andare via.

Nelle stesse ore in cui la incontriamo, in città arrivano la delegazione del governo russo e quella di Kiev per i colloqui che puntano a sbloccare lo stallo sul grano ucraino con la mediazione di Ankara. In una fase in cui il presidente Erdogan fa di tutto per accreditarsi come conciliatore (e intanto scambia calorose strette di mano con Vladimir Putin a Teheran), si allarga la rete di oppositori di Mosca che vengono a vivere nel Paese del sultano e Istanbul (di cui è stato anche sindaco) si fa sempre più movimentato hub per i dissidenti in fuga.

Aleksandra e i suoi coinquilini sono ospiti dell’organizzazione russa The Ark (L’Arca), gruppo di supporto per espatriati a rischio, nato dopo l’avvio della guerra con il sostegno dell’Anti-War Committee di Mikhail Khodorkovsky, ex uomo più ricco della Federazione, e di Garry Kasparov, campione del mondo di scacchi, insieme ad altri personaggi di spicco in esilio. The Ark ha fornito finora alloggio a circa 150 esuli a Istanbul e ad altrettanti a Yerevan, in Armenia, dove l’Arca è ugualmente presente. Ma ammontano a diverse migliaia i russi che hanno avuto dall’organizzazione supporto legale e psicologico e informazioni per gli espatri.

«In valigia ho messo solo i vestiti estivi. Quelli invernali me li invierà mia madre» ci dice Aleksandra, originaria della regione di Kaluga, ma per anni residente nella capitale. «Come per la maggior parte dei russi qui in città, me ne sono andata perché mi sono espressa contro il conflitto. Era diventato un rischio restare. La mia salute mentale era compromessa, vivevo nella paura, a contatto con persone sempre più aggressive nelle parole e nei modi, gente a cui pareva normale disquisire sull’opportunità di uccidere coloro che chiamavamo fratelli. Credo che la nostra colpa nei confronti degli ucraini non sarà mai cancellata». Molti ospiti di The Ark sono scappati subito, a inizio marzo.

Aleksandra ha acquistato il suo biglietto ad aprile ma se n’è andata solo due settimane fa: «Ho deciso di andare via il 24 febbraio, quando ho avuto l’esatta sensazione che la nostra vita fosse rovinata. Ho atteso, però, di prendere la laurea per non gettare via anni di studi. A maggio ho scritto a The Ark per chiedere aiuto, loro hanno analizzato i miei profili social, Instagram, Twitter, Telegram, che aggiornavo con rete internet privata VPN. Alla fine, hanno accettato la candidatura». Gli ultimi giorni di Aleksandra in Russia sono stati segnati dalla morsa della contrazione economica. «Nel giro di una settimana abbiamo visto i prezzi raddoppiare. Niente più carne a buon mercato, se non di pollo. La popolazione comincerà a capire che qualcosa non va, anche se in Russia la colpa non è mai imputata al governo, né a Putin, ma agli Usa e ora, ovvio, all’Ucraina». In aeroporto, Aleksandra si è resa conto subito che i funzionari di frontiera sapevano che la sua era una fuga. Ma non l’hanno trattenuta.

«È soprattutto a uomini giovani, in età da obbligo militare, che le autorità frontaliere fanno pressioni con raffiche di domande. Molti si preparano al controllo passaporti ripulendo i profili social, qualcuno compra finti biglietti di ritorno» ci spiega Eva Rapoport, 38 anni, coordinatrice di The Ark per la sede di Istanbul. La incontriamo in un’elegante caffetteria in piazza Taksim. Per fare ingresso in Turchia ai cittadini russi non serve un visto, ma questo non è l’unico motivo per cui sono in molti a scegliere Istanbul. «Attivisti di alto profilo pensano che in caso di procedimento penale in patria sia meno facile venire estradati da qui.

Rispetto a Yerevan e Tbilisi, altre mete-rifugio per i russi, le enormi dimensioni di Istanbul permettono poi di assorbire i nuovi arrivi senza fare schizzare in su i prezzi del mercato immobiliare». Ad occupare gli appartamenti di The Ark sono soprattutto giovani, tra i venti e i trent’anni, con un’istruzione elevata. Quasi nessuno, prima di febbraio, avrebbe mai pensato di lasciare il Paese. Almeno non così.

Sugli arrivi delle prime settimane Eva Rapoport, che è antropologa, ha avviato un’indagine indipendente. «Restare in Russia, pagare le tasse, per molti sarebbe stato come dare il proprio consenso alla guerra. Lasciare il Paese è una delle poche forme di protesta rimaste. Non è mai stato sicuro in patria scendere per strada a manifestare, ma l’annessione della Crimea nel 2014, poi la scusa del Covid e ora la guerra hanno portato a un duro inasprimento delle misure per tenere lontano tutti dalle piazze». Partire, oltre che per evitare guai giudiziari, significa anche far fronte allo choc del 24 febbraio. «È stato sconvolgente anche per me. E già vivevo qui" aggiunge Eva, che non parla al telefono con la madre da quella data. «So che è incollata alla tv e mi riferirebbe la versione ufficiale. Non sono pronta ad ascoltare quello che ha da dire».

A chi ripudia l’aggressione di Mosca e si trova in difficoltà, The Ark non dà solo supporto logistico. «Il conflitto e Vladimir Putin sono una cosa sola, perché questa non è la guerra della Russia, è la guerra del suo presidente» prosegue la coordinatrice. «Qui noi evitiamo che le persone si sentano perdute e cerchiamo di metterle in connessione tra loro, per impegnarci in nuovi progetti. Se la guerra possa diventare un’opportunità per coordinarsi in una rete di opposizione, non a livello di politica alta ma di base, non so ancora. Però ora non abbiamo altra scelta che provarci. Io ci spero con tutte le forze».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI