sabato 14 settembre 2019
Inseguito da tre procedimenti giudiziari e orfano dell’appoggio incondizionato di Trump, il premier arranca. L'intervista al direttore di «Haaretz» Aluf Benn
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Ci risiamo Secondo voto in cinque mesi: stessi giocatori, stesso schema, ma la partita è molto diversa. Benjamin Netanyahu, primo ministro in carica da dieci anni, per la prima volta si trova in gravi difficoltà: stanco, logorato da una campagna elettorale “solo contro tutti”, gravato da tre processi penali in corso che, se non dovesse vincere le elezioni, rischiano di spedirlo presto in tribunale, vede pure allontanarsi il grande alleato, il presidente americano Donald Trump, che dopo due anni di appoggio incondizionato, sembra ora fare marcia indietro. Anche se ieri non gli ha negato un «non penso ci abbiano spiato» in risposta al caso sollevato da Politico sulle microspie «israeliane» trovate a Washington.

L'ex generale Benny Gantz in ottima posizione. Bibi in difesa

L’avversario, dall’altra parte del campo, è molto forte: l’ex generale Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco (che ad aprile ha preso gli stessi seggi del Likud di Bibi Netanyahu), parte in ottima posizione e con le migliori credenziali. La sua campagna elettorale, pacata e rassicurante, è stata un forte segnale. In posizione “mediana” c’è Avigdor Lieberman, capo del partito ultranazionalista Yisrael Beitenu, che, di nuovo, potrà rivelarsi l’ago della bilancia. È stato proprio lui, titolare di pochi seggi strategici, a far saltare due volte di seguito il governo nei mesi scorsi, e ancora oggi non si capisce da che parte stia. Decisamente in difesa, invece, il premier Netanyahu: un ruolo a cui non è abituato, avendo sempre dimostrato, in questi dieci anni, di saper cadere ma, soprattutto, di sapersi rialzare. Però i tempi sono cambiati. Trump sembra temere che Bibi, pur di non finire in galera, possa puntare dritto a una guerra con l’Iran: prospettiva che il presidente americano vede come il fumo negli occhi. Nonostante i toni sempre accesi nei confronti di Teheran, svincolarsi dal trattato sul nucleare ha già rappresentato, per lui, una discreta rivalsa (soprattutto nei confronti del predecessore, Barack Obama). Le sanzioni fanno il “lavoro sporco”, e l’inquilino della Casa Bianca può persino concedersi il lusso di proporre aperture al presidente iraniano Hassan Rohani. Altro che guerra. Netanyahu ha annusato l’aria di tempesta ma sembra aver perso la bussola. L’altro ieri si è recato a Sochi per incontrare il presidente russo Vladimir Putin: un chiaro messaggio a Washington, se solo qualcuno lo stesse ad ascoltare. Mentre sul fronte interno, Bibi alza il livello della minaccia. Sulla Cisgiordania, con il suo piano di annessioni, e su Gaza: ancora ieri ha ripetuto che un’operazione contro l’enclave palestinese «può essere lanciata in qualsiasi momento, anche quattro giorni prima delle elezioni».

La battaglia per i 61 seggi

Di sicuro c’è che, quattro giorni prima delle elezioni, risulta molto complicato per il Likud arrivare alla maggioranza di 61 seggi (su 120 della Knesset) necessari per formare un governo. I sondaggi danno in lieve vantaggio il partito Blu-Bianco, con 32 seggi, seguito dai 31 del Likud. La Lista unita dei partiti arabi, la nuova formazione di destra Yamina dell’ex Ministro di Giustizia Ayelet Shaked e Yisrael Beitenu sono sui 10 seggi. Previsti 7 seggi ciascuno per i partiti ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism e per Campo Democratico di Ehud Barak. I Laburisti non supererebbero i 6, seguiti dal partito di estrema destra Otza Yehudit con 4 seggi.

L'intervista al direttore di Haaretz, Aluf Benn

«Più che di elezioni, si tratta di un referendum su Bibi. Anzi: di un referendum sui guai giudiziari di Bibi, perché, a seconda dell’esito, il premier verrà (o non verrà) mandato al confronto in tribunale». Così Aluf Benn, da otto anni direttore del prestigioso quotidiano israeliano Haaretz, legge il voto di martedì prossimo in Israele.

Netanyahu al centro di tutto?

Sì. Chi andrà a votare finirà per decidere sul destino del premier, e non su quello del processo di pace, dei cittadini di Gaza o sullo scontro tra sfera laica e religiosa.

Ma che ne sarà, dunque, di queste grandi questioni rimaste irrisolte?

Per quanto riguarda il processo di pace non è nelle nostre mani ma in quelle di Trump. Il “Piano del Secolo” è stato già scritto da tempo. Stanno solo aspettando gli esiti di queste elezioni per pubblicarlo. Quanto alla situazione a Gaza, il conflitto è sempre dietro l’angolo ma nessuno dei partiti, stando ai programmi elettorali, ha davvero lavorato a una strategia su come affrontarlo. Temo che nulla cambierà, in termini pratici, qualunque partito vada al governo.

Una questione esclusa da questa campagna elettorale è stata quella economica. Il Paese ha un grave deficit e nessun partito ha affrontato davvero il problema.

E infatti chi andrà al governo si ritroverà con una gigantesca patata bollente da gestire. E qualunque decisione prenderà in materia economica, risulterà impopolare. Anche per questo nessun politico di nessun partito anela ad ottenere l’incarico di ministro del Tesoro.

Quali sono gli scenari possibili del dopo-elezioni?

Se Bibi dovesse riuscire a formare una coalizione di 61 seggi – necessari per la maggioranza –, il primo passo che verrà fatto dal neo-governo sarà approvare una legge – sorta di “immunità parlamentare”, ndr – che possa garantirgli di rimanere impunito. Per arrivare a questo obiettivo, il premier dovrà appoggiarsi ancora una volta agli ultraortodossi, dando loro maggior potere in tutte le sfere che hanno a che fare con l’educazione, la cultura, l’uso dei media, insomma in tutto ciò che concerne la vita quotidiana in Israele. Se invece non dovesse riuscire a creare una coalizione, e a farlo fosse Gantz (verosimilmente senza né ultraortodossi né arabi, ma con una parte del Likud senza Bibi), ritengo che Netanyahu punterà ad aprire una crisi istituzionale, a tirarla in lungo, a far saltare tutto, cercando di allontanare in ogni modo l’orizzonte dei processi in vista.

In che modo?
L’insistenza di Bibi sulla questione dell’utilizzo delle telecamere nei seggi per evitare i brogli elettorali mi ha fatto pensare. Credo che se non dovesse riuscire a formare una coalizione, Netanyahu potrebbe, ma queste sono solo ipotesi, appellarsi alla giustizia per verificare la validità dei voti, contestare il risultato delle urne, e partire da qui per creare il caos. E quindi nuovi scenari.

Come cittadino israeliano, pensando alla sua famiglia, ai suoi figli, come vede il futuro di Israele e quali sono, secondo lei, le maggiori sfide che il Paese dovrebbe intraprendere?
Sono tendenzialmente ottimista, soprattutto sul futuro di Israele. Resta il fatto che, qualunque partito dovesse vincere, la prima sfida da affrontare, e con urgenza, è quella di preservare la democrazia del Paese: un bene prezioso, che non deve essere dato per scontato.

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