sabato 22 dicembre 2018
Samsun per tutti i cristiani voleva essere un punto di passaggio per puntare all’Europa, all’Australia dopo la fuga da Ninive e dal Daesh. Un sogno «lontano» Focsiv resta però al loro fianco
(Foto Cristian Gennari)

(Foto Cristian Gennari)

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Sfoglia, con trepidante affetto, l’album delle nozze celebrate a Qaraqosh una decina di anni fa. A fianco a lui c’è Mara nell'appartamento affittato a Karaddeniz, il quartiere più popolare di Samsun, sulla costa turca del Mar Nero. Nemmeno quelle foto, Youssef (i nomi sono inventati per evidenti motivi), è riuscito a portare via dalla Piana di Ninive la tremenda notte del 6 agosto del 2014 quando i peshmerga curdi ricevettero l’ordine di smobilitare, lasciando così campo aperto all'avanzata del Daesh nel Nord Iraq. «Siamo scappati solo con i documenti d’identità e i vestiti che avevamo addosso. E con qualche coperta».
Quei due quadernoni, la copertina lucida di cartone rigido, sono tutto quello che Youssef (42 anni), la moglie (32 anni), e i loro tre figli di nove, sette e cinque anni conservano dell’Iraq. Solo nella primavera del 2017, mentre il Califfato stava ripiegando su Mosul, una parente che ha visitato la casa saccheggiata li ha recuperati per loro.

La Turchia. Dopo la fuga, un anno come profughi ad Erbil – con altre 5 famiglie – speso per ottenere i passaporti e l’aereo per Ankara sembrò una liberazione: «È stato molto duro lasciare Erbil, ma il futuro in Iraq non è, ancora oggi, affatto chiaro. Ho pensato che in Turchia sarebbe stato più facile vivere», spiega Youssef. In patria era insegnante di inglese, figlio di una numerosa famiglia della media borghesia di Qaraqosh: i suoi fratelli sono tutti laureati e, anche grazie al loro aiuto, l’appartamento affittato a poco più di 100 dollari al mese è una sistemazione dignitosa.
Il porto turco, scelto dalle autorità turche per consentire di raggiungere i suoceri già fuggiti sin lì, è una sorta di limbo dantesco. Un porto d’approdo per i “senza terra” d’Iraq: 43 famiglie cristiane registrate dalla polizia. Agli iracheni, a differenza dei profughi siriani, non è permesso svolgere nessuna attività lavorativa, né avere accesso alle cure sanitarie. La carta di riconoscimento come profugo impone ogni settimana di andare a firmare presso la polizia che può, ad ogni minima infrazione, revocare il permesso. Chi lavora, in genere i ragazzi, lo fa in nero e con paghe dimezzate rispetto alla manovalanza locale.

«Non vogliamo restare in Turchia, ma nemmeno siamo disposti a tornare in Iraq. Non ho fiducia nel governo di Baghdad e nemmeno nel governo regionale del Kurdistan che, nel 2014, nel giro di 4 ore, ci ha abbandonato in mano al Daesh. È, tutto questo, una situazione troppo precaria», sintetizza per tutti gli iracheni il professor Youssef. L’Europa sembra aver chiuso le porte e, di sicuro, ha perso ogni fascino. Così, anche dalle rive del Mar Nero, si sogna un visto per l’Australia, il Canada o gli Usa. Dalla fuga dalla Piana di Ninive a oggi, solo due o tre famiglie di Samsun hanno avuto dall’Onu il benestare a emigrare. È come sperare di vincere al Bingo, mentre si vive come in una perenne lista d’attesa, aspettando che i funzionari dell’Onu aprono interminabili procedure internazionali.

Per i ragazzi, con forti differenze da regione a regione, c’è la possibilità della scuola pubblica. Ma nemmeno questo è scontato: «Ho scelto di mandare i miei figli a scuola – spiega Youssef –. Per me non è un problema che insegnino pure il Corano. Come cristiani devono imparare a vivere con i musulmani». Una eccezione, mentre la maggior parte degli iracheni – dopo essere fuggiti alle conversioni forzate – rifiutano qualsiasi contatto con la cultura islamica. Molti adolescenti, specialmente le ragazze, passano anni fra le mura di casa frequentando solo la “famiglia allargata” della diaspora. Intanto, in camera da letto i due figli più grandi aprono i loro libri di matematica e di grammatica turca. «Voglio che vivano il più possibile come gli altri bambini. Poi spiegherò loro cosa è successo», prosegue il professor Youssef.
La Chiesa. Sono 1.500 famiglie, circa 5mila persone, i profughi cristiani assistiti dal vicariato apostolico dell’Anatolia. Anche alle famiglie di Samsun, grazie a Caritas Anatolia e al Celim di Milano (Focsiv), arriveranno alcuni dei 2mila buoni spesa per Natale, ripartiti secondo rigorosi criteri di necessità. Un piccolo segno di solidarietà, ricevuto dalle mani dei due frati minori che un anno e mezzo fa hanno riaperto il portone della chiesa e quello del vecchio convento cappuccino, sbarrati per 10 anni. Una presenza umile e discreta, ma non per questo meno significativa. «C’era un vuoto nella nostra vita che con la vicinanza della Chiesa si è colmato. Si è ricostruita una comunità», assicurano tutti nella “little Ninive”.
Una parrocchia rinata di una Chiesa che vive come “minuscolo gregge”: poco più di 4mila battezzati turchi in sei parrocchie dove abitano circa 50milioni di persone in un territorio grande più che l’Italia. Una minuscola comunità – con 11 sacerdoti e 5 religiose, tutti stranieri – guidata dal vescovo Paolo Bizzeti, il successore di Luigi Padovese, ucciso a Iskenderun nel giugno del 2010, ma con un patrimonio storico inestimabile. Il vicariato apostolico di Anatolia conserva i segni della Chiesa degli Atti degli apostoli e dei viaggi di Paolo di Tarso. Una “terra santa dei cristiani provenienti dal paganesimo”, in un presente di quasi nascondimento: in Turchia c’è libertà di culto e non di religione, ma le conversioni di adulti sono permesse.

Un popolo in esodo. Intanto, nel tardo pomeriggio, nella parrocchia dedicata a “Maria Mater dolorosa” inizia l’adorazione eucaristica. Il professor Youssef ha tradotto dall’inglese all’arabo i testi preparati da padre Marcelo Cisneros, argentino di Buenos Aires. «Tu sei santo, Signore solo Dio, che compi meraviglie. Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei altissimo. Tu sei onnipotente...». Le “Lodi di Dio altissimo” di Francesco d’Assisi, in arabo suonano incomprensibili anche al parroco che sta ancora imparando il turco, ma la fede della piccola comunità commuove. «Il nostro è un lavoro di accompagnamento mentre fra questi cristiani risuona quella che era la domanda di Israele durante l’esilio: Dio e con noi o no? Celebrare il Natale è affermare che Dio non li ha abbandonati, che continua ad essere con noi», afferma fra Marcelo. Un esodo, che nelle speranze dei profughi, non si è ancora concluso. «Ovunque andremo, in Occidente, vivremo un’esistenza diversa, con molte differenze culturali e difficoltà». Ma la vita sa resistere anche fra i sassi di un terra d’esilio: «Siamo come il germoglio che spunta da un chicco di grano», conclude Youssef, in cerca di una nuova Ninive.


DA SAPERE: CONTINUA LA CAMPAGNA DI FOCSIV E AVVENIRE

Ricominciare, dopo che una ferita ha segnato il corpo e di certo, a tutti, ha paralizzato l’anima. Ricominciare «con gli occhi di un bambino», capaci di vedere dopo l’emergenza un nuovo traguardo. E scoprire che «anche un mondo ferito si può colorare di speranza». In Medio Oriente c’è chi la guerra l’ha vista materializzarsi sotto casa; chi è divenuto profugo; e chi, accogliendo, ha visto la sua vita cambiare. Per questo le Ong del consorzio Humanity (Ass. Realmonte, Celim, Engim, Fondazione Buon Pastore, Fundacion Promocion Social, FMSI, Punto Missione) con Focsiv rilanciano per il terzo anno la sfida: «Ricominciamo da loro», da chi – nell’età dei giochi – si trova in un campo profughi, in una scuola nei container, o in una città distrutta da un assedio. Stare fianco a fianco, quest’anno con una attenzione particolare alla resilienza: l’arte di superare il dolore di una perdita, per trovare la forza per ripartire. A fianco di chi è stato ferito, i cooperanti di Focsiv, accompagnano l’uscita dalla prima emergenza e creano le condizioni per tornare a casa. Ricominciare. E ricostruire.

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