sabato 30 luglio 2022
Il racconto di un sopravvissuto alle scuole residenziali, Piita Irniq. «Un cambiamento ci deve essere, perché tutti lo vogliono. Dobbiamo prendere la strada della cooperazione». Incontro con Francesco
Piita Irniq un anziano degli Inuit, ricevuto dal Papa in forma privata ieri. Fu strappato alla sua famiglia quando aveva 11 anni, nel 1958

Piita Irniq un anziano degli Inuit, ricevuto dal Papa in forma privata ieri. Fu strappato alla sua famiglia quando aveva 11 anni, nel 1958 - Molinari

COMMENTA E CONDIVIDI

«Da questo lato dormivano i miei genitori. Io ero in mezzo, poi c’era mio fratello e mia sorella e più tardi mio cognato. Su questa piastra mia mamma cuoceva la carne, con il fuoco alimentato dal grasso di foca».

Piita Irniq indica i diversi spazi all’interno della capanna di zolle d’erba, ossa di balena e pelli di caribù eretta sull’isola di Qaummaarviit, al largo di Iqaluit. Si trova all’interno di un sito archeologico, scavato cinque anni fa per portare alla luce i resti di una comunità Inuit e per ricostruire la case nello stile tradizionale del popolo indigeno. Irniq conferma che la riproduzione è fedele, e gli si può credere, perché in una casa così, su questa stessa isola, ha vissuto per 11 estati. D’inverno viveva in un iglù.

È qui che il piccolo Piita è stato prelevato da un sacerdote nel 1958, a 11 anni, per essere portato a una scuola residenziale a Chesterfield Inlet, sempre in Nunavut, quindi a un altro pensionato governativo a Churchill, in Manitoba. Nel corso degli 8 anni di scuola ha subito degli abusi sessuali.

Irniq, che è stato commissario del Nunavut, è uno dei pochissimi autoctoni invitati all’incontro privato che il Papa avrebbe avuto nel pomeriggio canadese (la tarda serata in Italia) a Iqaluit, a poca distanza dal Circolo polare artico.

Guardare gli scavi attraverso i suoi occhi trasforma mucchi di rocce anonimi in tombe o nascondigli per la carne, dove la cacciagione veniva lasciata per mesi. «D’estate pescavamo, in autunno seguivamo i caribù, in inverno cacciavamo le foche e in primavera le balene», racconta il 74enne mentre salta in modo sorprendentemente agile da una roccia all’altra. Poi spiega che per integrare la dieta a base di carne coglievano bacche e erbe, raccoglie un mazzetto di foglie e le offre. Sanno di lattuga e di limone.
Al pensionato questa conoscenza gli è stata inutile.

«Ci veniva detto che i nostri antenati erano selvaggi, barbari», ricorda. Una volta a scuola, gli è stata appesa al collo una busta che conteneva un numero: era lui. Il governo canadese aveva assegnato a tutti gli “eschimesi”, come li chiamava allora, una cifra per identificarli, perché non comprendeva i nomi nella loro lingua.

La separazione forzata dalla famiglia non era il primo intervento drammatico che Piita (poi divenuto Peter) subiva da parte del governo federale. L’estate precedente i gendarmi canadesi avevano radunato i cani da slitta di tutte le famiglie della regione e li avevano uccisi, per impedire agli Inuit di allontanarsi troppo durante la loro migrazione stagionale.

Piita trova ancora difficile parlare di quegli anni, durante i quali dice anche di aver imparato tanto e di aver conosciuto persone caritatevoli, ma non per questo serba rancore. Lo avrebbe sicuramente detto al Papa, nel porgergli un tamburo fatto con le sue mani. «Accetto pienamente le sue scuse – continua – ma per gli autoctoni vorrebbe dire molto se il Vaticano potesse indagare i religiosi sospettati di violenze e abusi nei confronti di bambini indigeni. E se la Chiesa ci aiutasse economicamente a tenere in vita le nostre lingue e la nostra cultura contribuendo a finanziare programmi di formazione per gli insegnanti Inuit. Ora non ne abbiamo».

Irniq è sicuro che la visita di Francesco avvierà un cambiamento. «Ci deve essere, perché tutti lo vogliono. Non abbiamo scelta. Dobbiamo prendere la strada della cooperazione e penso che vedremo presto degli atti concreti», dice.

La sua speranza, naturalmente, sono i giovani, che «vogliono riscoprire le loro tradizioni, che sono liberi dal risentimento, e che sono abituati a dire quello che pensano. Faranno tutto il necessario per essere ascoltati». Ma ha fiducia anche nella sua terra: «Il risorgimento della nostra cultura passa attraverso attraverso la cura della terra. I giovani hanno una forte sensibilità ecologica, che si sposa con il modo di vita tradizionale di comunione assoluta con la natura – conclude –. La terra sana, la terra riconcilia. È grazie alla terra, dove dopo otto anni sono potuto tornare, che ho potuto perdonare».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI