giovedì 10 gennaio 2013
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«Ricostruire i muri non basta. Gli haitiani stanno cercando di ricostituire la loro società, duramente ferita dal terremoto e prima da secoli di sfruttamento. Chiedono, dunque, di essere aiutati a sviluppare la formazione professionale, l’educazione, ad avviare nuovi circuiti economici. La popolazione vuole rendersi autosufficiente». Monsignor Guire Poulard, arcivescovo di Port-au-Prince, ha le idee chiare. Perché è abituato ad ascoltare la gente. La sua storia di uomo e pastore è profondamente intrecciata a quella del sisma. Il 12 gennaio 2010 si trovava nella diocesi di Les Cayes, nel Sud, di cui era vescovo. Non ha avvertito, dunque, la terribile frustata che ha devastato la capitale. Fin dall’inizio, però, ha aperto le porte delle chiese della sua diocesi per accogliere chi era rimasto senza casa. Poi – due anni fa –, monsignor Poulard è stato chiamato a ricoprire l’incarico che prima era stato dell’arcivescovo Joseph Serge Miot, morto durante il terremoto nel crollo dell’edificio in cui aveva casa e ufficio, proprio dietro la cattedrale. La struttura non è stata ancora riparata. «Abbiamo pensato prima agli sfollati», spiega l’arcivescovo. Che è ospite della Conferenza episcopale haitiana, nell’edificio situato a Croix des Busquets, all’interno del compound degli scalabriniani. Sul retro dell’alloggio si trova il seminario e, accanto, la tomba di monsignor Miot.Con che sentimento celebrerà sabato la Messa sabato per il terzo anniversario del terremoto?Con un misto di tristezza e speranza. Tristezza per il dolore che il mio popolo ha sofferto e ancora soffre per la catastrofe. Speranza per l’inguaribile voglia di vivere che vedo nelle persone durante le visite alle comunità. Questo popolo è determinato a non arrendersi e ci domanda di aprire nuovi cammini sui quali possa procedere, con dignità, verso l’avvenire.Che cosa chiedono dunque gli haitiani al mondo?Di non trattarli come bambini, di non sostituirsi a loro nelle decisioni e di non limitarsi a soddisfarne i bisogni primari. La gente vuole avere la possibilità di rendersi autonoma, di lavorare, di contribuire allo sviluppo in prima persona. Il sostegno internazionale, dunque, deve avviare processi. Fornendo alle persone i mezzi per progredire e fa progredire il Paese, in una prospettiva che vada oltre l’urgenza. Proprio come sta facendo la Chiesa italiana.E il governo come procede nella ricostruzione?L’attuale presidente, Michel Martelly, ha dato prova di generosità e slancio. Gli sforzi dell’esecutivo, però, non sono sufficienti per risolvere i drammi haitiani, preesistenti al sisma e aggravati da quest’ultimo. Primo fra tutti la corruzione che dilaga nell’amministrazione pubblica, nella polizia, nella giustizia. Le difficoltà spingono tante, troppe persone a lasciare l’isola. Ogni giorno vedo la fila per sollecitare il visto di fronte all’ambasciata americana e mi si stringe il cuore. Quanti haitiani stanno abbandonando il Paese?Impossibile fornire una stima precisa: ai tanti che partono legalmente si aggiungono quelli che lo fanno vittime di reti di tratta. I trafficanti li attirano con l’inganno: promettono un lavoro ben pagato all’estero e, invece, una volta arrivati, i migranti finiscono preda di ogni genere di abuso e sfruttamento. Come arginare questa piaga?Aiutando gli haitiani a prendere in mano il destino del loro Paese. Il sostegno del mondo è prezioso per far in modo che la gente si rialzi: poi però questa dev’essere incoraggiata a camminare con le proprie gambe.
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