martedì 27 dicembre 2016
Sarebbero migliaia i combattenti del Daesh arrivati dalla Tunisia. E ora si teme il rischio di un effetto Somalia
Jihadisti in un fermo immagine da un video diffuso dallo stesso Daesh

Jihadisti in un fermo immagine da un video diffuso dallo stesso Daesh

COMMENTA E CONDIVIDI

Crescono i timori dei servizi segreti tunisini per il ritorno in patria degli oltre 5mila concittadini arruolatisi fra le file dei gruppi combattenti islamisti attivi in Libia, Siria e Iraq. «Il ritorno dei terroristi dai ricettacoli di rivolta in Tunisia è preoccupante perché potrebbe portare alla «somalizzazione del Paese”», si legge in una dichiarazione delle forze di sicurezza interne, il controspionaggio, diffusa a seguito dell’arresto del fratello e di altre due persone vicine al tunisino Anis Amri, il 24enne affiliato al Daesh, autore della strage di Berlino.

I «foreign fighter» (combattenti stranieri) tunisini rappresentano il gruppo di volontari non-mediorientali più consistente sia nel Daesh sia in altre formazioni islamiste, per lo più vicine ad al-Qaeda. Tra l’altro, essi ricoprono sovente ruoli dirigenziali, sul campo o nella sala dei bottoni. Prosegue la nota degli 007 nordafricani: i terroristi «hanno ricevuto addestramento militare e hanno imparato ad usare ogni tipo di armi». Se personaggi del genere, insomma, rientrassero, potrebbero avere un effetto devastante in una democrazia acerba e fragile, soprattutto in termini socio-economici, come quella tunisina, in cui molti giovani sono «osservati speciali» dalla polizia per le loro simpatie salafite.

Il governo di unità nazionale di Youssef Chahed ha tutte le ragioni per temere il peggio: gli attentati terroristici dell’ultimo biennio, con particolare aggressività nel 2015 (attentato al museo del Bardo e alla località turistica di Sousse, per citare quelli che hanno coinvolto cittadini occidentali), hanno messo in ginocchio l’economia nazionale, già duramente segnata dagli strascichi della rivoluzione dei Gelsomini iniziata nel 2010. Rafforzando le proprie misure di sicurezza interna con la collaborazione dei maggiori servizi di intelligence internazionali, quest’anno Tunisi ha faticosamente presidiato il controllo di frontiere e obiettivi sensibili, ma il confine orientale è messo a dura prova da continui tentativi di penetrazione da parte di combattenti provenienti dal territorio libico. Internamente, la sorveglianza sul campo richiede occhi e orecchie attenti sia nella capitale sia nelle aree rurali più svantaggiate, dove nessun beneficio economico è ancora giunto dopo il crollo della dittatura di Ben Ali.

Il contrasto al jihad, però, si rivela complesso anche in termini geo-politici: da un lato è vero che molti combattenti tunisini si addestrano in Qatar e Arabia Saudita; dall’altro, Tunisi non può dimenticare che proprio Doha ha supportato l’economia tunisina con quasi 1 miliardo e mezzo di dollari dal gennaio del 2011 a oggi (dati della Banca centrale tunisina). E che anche in occasione della Conferenza internazionale per gli investimenti, tenutasi a Tunisi il 29 e 30 novembre scorsi, proprio i sultanati della Penisola araba si sono esposti maggiormente, seguiti dalla Russia. Le ultime dichiarazioni del presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi, a metà dicembre, hanno scatenato dure polemiche: «Molti di loro vogliono tornare e non possiamo impedirlo, ma saremo vigili».

Venerdì scorso, poi, di fronte al Parlamento, il ministro dell’Interno Hedi Majdoub ha dichiarato che sono 800 i combattenti tunisini già tornati nel Paese. Di che provocare la levata di scudi di ampie fette della società tunisina, che chiedono più incisività nella lotta al terrore: domenica, davanti al Parlamento, 1.500 persone hanno manifestato contro l’eventuale «somalizzazione» del Paese, dicendo «no» al rientro dei concittadini estremisti.

Un’ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, della lucida vigilanza esercitata sulla condotta della classe politica dalla società civile tunisina, l’unica ad aver trasfomato la Primavera araba in cammino riformatore. Un processo faticoso, spesso condito da amara ironia, come nel caso del caricaturista Willis from Tunis, che, nel commentare la strage di Berlino, ha fatto dire al proprio personaggio di punta, un gatto di nome Willis appunto: «Speriamo che il terrorista non sia tunisino...E speriamo pure che non abbia il mio stesso cognome...».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: