sabato 2 luglio 2022
Un milione gli abitanti che sono finiti volontariamente o deportati nelle aree russe: prima devono affrontare un durissimo processo di «filtrazione», poi chi non rimane si affida alle Ong per l'aiuto
Ciò che resta di un complesso residenziale alla periferia di Mariupol devastato dall’artiglieria russa

Ciò che resta di un complesso residenziale alla periferia di Mariupol devastato dall’artiglieria russa - Reuters

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Costretti o meno a farlo, deportati oppure no, consenzienti o disperati, spesso senza un’altra via d’uscita per venire evacuati. Sono centinaia di migliaia (oltre un milione per Unhcr-Acnur) i civili ucraini che in questi mesi hanno dovuto salvarsi la pelle puntando verso Est, facendo ingresso nella Federazione Russa. Cioè finendo da rifugiati nel Paese che li ha attaccati. «Da Mariupol, Berdyansk, Kherson, le persone che assistiamo provengono da città e territori ora sotto occupazione. Lasciano l’Ucraina passando dalla Russia, dalla Crimea o dalla Repubblica Popolare di Donetsk, principalmente perché non hanno la possibilità di transitare altrove. Chi è pro-Mosca resta nella Federazione, chi arriva da noi la pensa diversamente ».

Lo spiega dalla capitale della Georgia, Masha Belkina, fondatrice di Volunteers Tbilisi, un’organizzazione a sostegno dei rifugiati nata quattro giorni dopo l’invasione di Mosca. A fornire cibo e altri generi di prima necessità, ma anche alloggi a medio e lungo termine, è un folto gruppo di giovani volontari. Sono per la maggior parte di nazionalità russa. Anche Masha Belkina ha un passaporto della Federazione, come la sua responsabile della comunicazione e il direttore delle operazioni. «A lavorare abbiamo anche persone rifugiate. Impegnarci insieme, russi e ucraini, è significativo per noi anche per mostrare a chi fugge che non tutti i russi la pensano come Putin».

Circa 22mila ucraini hanno fatto ingresso in Georgia dall’inizio del conflitto. L’organizzazione di Masha ha contribuito a farne entrare molti, attraverso una rete clandestina di autisti operativi sul territorio della Federazione. «Per chi è in viaggio acquistiamo biglietti di treni o bus, ma abbiamo a disposizione anche autisti in Russia che lavorano in incognito, perché il rischio che corrono è alto». La maggior parte dei profughi arriva dopo avere subito la cosiddetta “filtrazione”, il processo di controllo con cui l’esercito russo verifica identità, valuta storie, eventuali legami con truppe e governo di Kiev, tra mille domande, questionari, ispezioni dei cellulari, e un’umiliante esplorazione corporale, per rintracciare tatuaggi che rivelino affiliazioni a gruppi nazionalisti o bruciature e callosità che dimostrerebbero di avere maneggiato armi.

Chi ci è passato racconta di essere rimasto «nei campi di filtrazione di solito per un paio di giorni», riferisce Masha. «Spogliarsi e consegnare il proprio telefono è qualcosa di incomprensibile a molti, fa paura ma suscita anche incredulità. Filtrati a quale scopo, per dividere chi da chi, si chiedono. Ci hanno raccontato del terrore di rimanere con i figli fuori dalla stanza in cui il coniuge è sotto interrogatorio, e non sapere come andrà a finire». Esistono campi di filtrazione al confine ucraino, ma anche nella Repubblica Popolare di Donetsk (Dnr) e in Russia. «Uno dei più grandi è a Taganrog, nella regione di Rostov. In totale ne abbiamo sentiti nominare quindici». Chi supera l’ispezione «è lasciato libero solo se dimostra di avere parenti in Russia, un posto preciso dove andare, un indirizzo che sarà anch’esso controllato».

Chi non ha piani concreti né qualcuno da raggiungere nella Federazione, e si mostra sperduto, rischia di venire “accolto” in insediamenti isolati, vecchi resort in rovina, strutture semi-abbandonate. «Ti “aiutano” a sistemarti, come dicono loro, ma non si tratta di una vita realmente libera». Da Taganrog, gli ucraini “filtrati” possono raggiungere in treno la città di Vladikavkaz, poi con il bus il confine georgiano, per ricominciare a vivere o almeno aspettare al sicuro di tornare a casa propria. Nata e cresciuta a Mosca, questa settimana Masha Belkina si è sposata. Ora ha un marito ucraino.

«Quello che succede mi ferisce come se fossi io stessa originaria del suo Paese. Mia nonna mi ha detto di non sprecare tempo ad aiutare gli ucraini », confida, parlando della pena di sapere che molti parenti e amici in Russia approvano il conflitto. «Io, però, quando vedo una persona che chiede aiuto, glielo offro. L’ho fatto anche con tanti russi che dall’inizio della guerra sono arrivati qui. Ho aperto il mio appartamento a un’amica di Mosca, perché la Russia che vediamo agire oggi non è il Paese che conosco io. Non è lo stesso posto in cui sono nata».

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