sabato 19 agosto 2017
Khaled al-Asaad per 40 anni aveva guidato gli scavi e il museo, poi era rimasto nell'antica città che amava e che ha cercato di proteggere anche dal Daesh. Al prezzo della vita
Militari a Palmira dopo la cacciata del Daesh (Ansa)

Militari a Palmira dopo la cacciata del Daesh (Ansa)

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«L’oro di Palmira? Sta nella sua eternità! ». Parole forti, che sembrano stridere con le ultime immagini provenienti dal sito archeologico siriano. Eppure chi le ha pronunciate, poco più di due anni fa, conosceva meglio di chiunque altro la città antica, così come il destino cui essa andava incontro: quel giorno, la “Sposa del deserto” era ancora inviolata. Ma il Daesh probabilmente stava già selezionando gli edifici che di lì a poco avrebbe distrutto «in modo molto mirato».

Khaled al-Asaad, 81 anni, quaranta trascorsi alla guida degli scavi e del museo, era sotto interrogatorio da parte dei miliziani. E non era solo. Con lui suo figlio Waleed, che dodici anni prima gli era subentrato alla direzione del sito. Da allora Khaled vi continuò a lavorare come consulente esperto. Lui che era nato presso la porta del tempio, ripeteva spesso: «Palmira è il mio destino: lasciatemi qui, tra queste rovine, in cui sono nato e in cui voglio morire». E così fu. Fino al giorno della sua decapitazione, avvenuta per mano del Daesh esattamente due anni fa.


Cosa si ricorda di quei terribili giorni?

La preoccupazione di mio padre per la città. Tuttavia, non mostrava alcun segno di paura. Dedicava la maggior parte del tempo a recitare il Corano, ripetendomi: «Recita! Null’altro ci può colpire se non ciò che Allah ha scritto per noi. Egli è il nostro custode!».

Ma di lì a poco la situazione precipitò…

Fui più volte convocato e interrogato dal Daesh nel museo e i terroristi vennero anche a casa mia, mi arrestarono e quindi rilasciarono dopo cinque giorni. Infine io e mio padre fummo convocati nel centro culturale, trasformato in tribunale della sharia. Ci liberarono al termine di un’intera giornata, ordinandoci però di non lasciare il territorio del cosiddetto Stato Islamico.

Cosa volevano i terroristi?

Quando ci imprigionarono per la prima volta, chiesero a mio padre di indicare dove fossero nascosti l’oro e i tesori di Palmira. Non dimenticherò mai il modo brusco in cui lui rispose: «Qui non c’è nulla, se non nella vostra immaginazione: l’oro di Palmira sta nella sua eternità!». Fu assolutamente sconvolgente e inaspettato per loro, l’inizio di un cammino tragico per la nostra famiglia.

Un cammino tragico poi proseguito con la cattura di suo padre.

Sì. Durante i giorni della sua detenzione, cercavamo di conoscerne il luogo o di ottenere un permesso per portargli le medicine di cui necessitava, ma tutti i nostri tentativi andarono a vuoto.

Cosa voleva ottenere il Daesh con la sua esecuzione?

Sull’elenco delle accuse, quei criminali scrissero: «Apostata Khalid Mohammed Asaad» (sic), solo perché si era rifiutato di giurare fedeltà ad Al Baghdadi, presunto califfo dello stato dell’ignoranza. Sapevano che, se invece avesse accettato, l’avrebbero seguito molte persone in città. Ma mio padre si rifiutò di abbandonare i propri principi, anche quando si rese conto che avrebbe pagato con la vita.

Cosa successe subito dopo la sua morte?

Fu uno dei miei dieci fratelli a comunicare l’orribile notizia ordinandoci di stare nascosti. Così di notte entrammo a Raqqa e vi rimanemmo tre giorni, fino a quando una persona fidata ci fece fuggire. Solo due ore dopo i terroristi fecero irruzione nel nostro nascondiglio, mentre stavamo già scappando attraverso la campagna, fino a Homs. Furono i cittadini di Palmira a recuperare la testa di mio padre, per seppellirla in fretta e di nascosto. Dopo tre giorni riuscirono a tumulare anche il corpo.

Come desidera venga ricordato suo padre?

Io e la mia famiglia speriamo di rientrare il prima possibile a Palmira per recuperare il suo corpo e donargli una sepoltura degna del suo sacrificio, costruire un museo privato in sua memoria e contribuire alla ricostruzione della città.

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