domenica 4 novembre 2018
Gli operai dell'industria pesante tra Buffalo e Chicago nel 2016 l'avevano portato alla Casa Bianca. Restano con lui, ma con riserve. La delusione femminile può ribaltare l'esito
In milioni hanno già scelto: elettori in fila nell'ultimo giorno di voto anticipato alla Green Hill Library di Nashville in Tennessee (Ansa)

In milioni hanno già scelto: elettori in fila nell'ultimo giorno di voto anticipato alla Green Hill Library di Nashville in Tennessee (Ansa)

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Non molto tempo fa, la città di Auburn, nel nord dello Stato di New York, non lontano da Buffalo, era una delle più ricche della regione, grazie alle fornaci che producevano a pieno regime barre d’acciaio richieste in ogni angolo d’America e in una mezza dozzina di Paesi stranieri. Fino a quando il metallo cinese a basso costo ha inondato il mercato e la contea di Cayuga e le sue vicine hanno conosciuto un rapido declino.

Mentre le miniere di ferro sulle vicine montagne chiudevano e migliaia di “colletti blu” rimanevano a casa, l’intera regione, storicamente democratica, cercava a Washington qualcuno che potesse salvarla dalla disoccupazione, dall’esodo in massa dei giovani, dalla crescente povertà e dall’epidemia di tossicodipendenza. E l’ha trovato in Donald Trump, con le sue promesse di tagli alle tasse per le imprese e di tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio. Oggi, due anni dopo l’elezione del miliardario, Auburn è in migliori condizioni. Le acciaierie locali, Nucor, hanno riprese a investire e ad assumere, il tasso di povertà è calato. È difficile dire se la ripresa sia iniziata grazie alle politiche del presidente repubblicane: molti economisti puntano il dito anche agli effetti di Obamacare e del sostegno alla formazione professionale inaugurato del suo predecessore Barack Obama. Ma è certo che da queste parti il protezionismo economico, la linea dura contro l’immigrazione illegale, la deregolamentazione e gli incentivi fiscali alle imprese dell’Amministrazione repubblicana hanno fatto perdonare molto a un presidente che molti considerano moralmente discutibile.

«Credo che in questa zona ci siano molti cattolici irlandesi, come me, che non apprezzano che il leader del mondo libero si diverta a umiliare gli altri, dalle donne ai suoi rivali, agli immigrati – spiega un operaio di 50 anni, Ray O’Brian, all’uscita della Nucor – ma non voterò per i democratici, perché ci farebbero ripiombare nella depressione. Trump dovrebbe stare più attento a come parla, ma so che ha i nostri interessi a cuore».

La “Rust Belt”, la «cintura arrugginita » dell’industria manifatturiera americana che va da Buffalo a Chicago passando per Pittsburgh, e che nel 2016 ha regalato un’insperata vittoria al magnate degli hotel e dei casinò prestato alla politica, in questi giorni è osservata speciale dagli analisti dei flussi elettorali. Che si chiedono se la fedeltà locale al presidente sia stata scalfita dagli scandali a sfondo sessuale, dalle accuse di collusione con la Russia e di corruzione che hanno toccato la Casa Bianca. E se, in caso sia rimasta intatta, si tradurrà in una vittoria per i candidati repubblicani, aiutando il Grand Old Party a mantenere il controllo del Congresso. I sondaggi danno una risposta.

Mostrano che i democratici sono in testa nelle gare per l’elezione dei governatori della Pennsylvania e del Michigan, e hanno ottime possibilità di conquistarle anche in Ohio e nel Wisconsin, quattro Stati della Rust Belt passati da blu (democratici) a rossi (repubblicani) nel 2012 e che lo sono rimasti nel 2016. L’immagine è simile nelle battaglie per il Senato e per la Camera: il partito dell’asinello è al comando. Ma, ammesso che le proiezioni siano corrette – e due anni fa hanno fallito miseramente – non permettono comunque di concludere che gli operai del Nord dello Stato di New York abbiano voltato in massa le spalle al tycoon. Jonathan Stewart, 66 anni, minatore in pensione, ad esempio, è certo che l’elezione di Trump abbia salvato l’America dal diventare un Paese in cui «le tasse e la disoccupazione sono alle stelle, l’economia è allo stremo, l’illegalità regna». Henry Novak, 58 anni, caposquadra della Nucor, è più cauto: «Le miniere che avevano chiuso non hanno riaperto e l’industria siderurgica continua a zoppicare. Neanche Trump può salvarci dalla globalizzazione. Ci sono troppo poche opportunità per i giovani». Ma, fa notare, il presidente può impedire che suo figlio, che lavora come bidello, o sue figlia, che cura gli anziani a domicilio, «siano rimpiazzati da immigrati senza documenti che non chiedono la paga minima sindacale ». Per persone come Novak e la sua famiglia, la paura evocata da Trump di orde di disperati che premono ai confini e che portano con sé «droga, violenza e manodopera a basso prezzo», è reale. Allora perché la Rust Belt potrebbe essere travolta da un minitsunami blu? Una risposta sono le donne, che cominciano a mettere la rispettabilità (o mancanza di rispettabilità) del loro presidente sul piatto della bilancia opposto alle sue promesse di una vita migliore. L’altra è che le elezioni di metà mandato in questo angolo d’America non sono viste come un referendum sul presidente. Il problema per il Gop, infatti, è che la Rust Belt non è solidamente repubblicana, anche se ha votato per Trump.

«Il mondo non è andato sottosopra nel 2016 a causa di Trump, le tendenze elettorali di lunga data restano», spiega Matt Morrison, rappresentante del sindacato Afl-Cio, che ha quasi due milioni di membri nel Midwest. In altre parole, la “cintura della ruggine” resta un territorio politicamente incerto, disposta a votare di volta in volta per il candidato che risponde più ai suoi interessi e ai suoi valori, indipendentemente dal partito. «Gli analisti hanno voluto leggere troppo nei risultati del 2016 – continua Morrison –. Ma allo stesso tempo, se la regione torna in maggioranza democratica quest’anno, non bisogna leggerci troppo per il futuro. Quello che succede nel 2018 non sarà un precursore del 2020».

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