venerdì 30 ottobre 2020
È la "diaspora di ritorno" di chi era emigrato per cercare lavoro. Maduro assicura di volerli accogliere, ma mancano viveri, medicinali e acqua pulita
Un gruppo di cittadini venezuelani rientrati in patria dai Paesi confinanti: devono trascorrere la quarantena in un centro d'accoglienza nello Stato di Táchira

Un gruppo di cittadini venezuelani rientrati in patria dai Paesi confinanti: devono trascorrere la quarantena in un centro d'accoglienza nello Stato di Táchira - Veronica Ravello/Msf

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Per due mesi il 23enne Jefferson Hernández ha camminato senza sosta. Una tappa al giorno per tornare dalla capitale peruviana Lima a casa sua, in Venezuela. Un’odissea compiuta insieme alla moglie e al figlioletto di un anno, portato in braccio. A Lima, Jefferson faceva il barbiere, ma ha dovuto chiudere bottega per via dell’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid. E così, insieme alla famiglia, ha deciso di rientrare in patria e ora si trova in un centro di quarantena venezuelano. Altri due figlioletti della coppia, di poco più grandi, erano riusciti ad attraversare il confine qualche giorno prima e sono stati assegnati a un centro diverso. Gli Hernández sono fra i 130mila venezuelani che, secondo un rapporto di Human Rights Watch diffuso pochi giorni fa, dopo essere emigrati nei Paesi vicini, negli ultimi mesi hanno deciso di intraprendere la via del ritorno, a causa della pandemia. Oltre 90mila sono rientrati dal confine colombiano, secondo un rapporto di “Migración Colombia” datato a luglio.

Una drammatica “diaspora di rientro” indotta dalla perdita del lavoro o dalla necessità di rientrare per assistere familiari, in un Paese afflitto da un’emigrazione senza precedenti: in questi anni, su 32 milioni di abitanti oltre 4 sono andati via per sfuggire alla crisi economica, politica e sociale che attanaglia il Venezuela, con un tasso d’inflazione a sei zeri e livelli di povertà e criminalità da far spavento. Los que vuelven, come li chiamano qui, dopo fatiche estenuanti arrivano nello Stato di Táchira, dove le autorità hanno creato 28 centri per la quarantena.

Un centro d'accoglienza nello Stato di Táchira

Un centro d'accoglienza nello Stato di Táchira - Veronica Ravello/Msf

Là sono sottoposti ai test, per isolare gli eventuali positivi. E, una volta terminato il periodo di quarantena o di cura, possono continuare il viaggio verso casa. Molti hanno raccontato le proprie traversie agli operatori di Medici senza frontiere, che li hanno visitati nei giorni scorsi. Fra loro c’è Daniela, 14enne, che ha camminato per due mesi. E Douglas Perez, che dopo aver perso il lavoro in Ecuador ha pedalato per 3.800 chilometri, accompagnato dal suo cane Pio: entrambi sono in quarantena nel Táchira. Stesso mezzo di locomozione per il 22enne Cristian, fattorino a Bogotà, anche lui rientrato in bici.

Mentre Deyanina, estetista, ha lasciato a piedi Cúcuta, al confine colombiano, dopo esser rimasta senza impiego. Stanchi, smagriti, coi muscoli doloranti, Cristian e Deyanina dopo il test per il Covid–19 sono stati trasferiti al “Futbol Sala”, ex complesso sportivo a San Cristobal. «Le nostre équipe, in collaborazione con le autorità locali e nazionali, stanno intervenendo in 16 centri » racconta Veronica Perez, membro di Msf a Táchira, «abbiamo installato bagni, costruito docce e punti per il lavaggio delle mani, e garantito il rispetto delle norme igienico–sanitarie».

Medici senza frontiere (Msf) assiste i venezuelani 'di ritorno' nei centri per la quarantena

Medici senza frontiere (Msf) assiste i venezuelani "di ritorno" nei centri per la quarantena - Veronica Ravello/Msf

Da maggio, Msf ha assistito 9.300 persone: «Nei centri abbiamo riscontrato casi di malattie intestinali e cerchiamo di migliorare le condizioni igienico–sanitarie fornendo acqua potabile alle persone». C’è pure chi, come il 31enne Oswaldo Martinez, un impiego non aveva neppure fatto in tempo a trovarlo. E dopo mesi di ricerche vane in Perù e in Ecuador, ha riempito uno zainetto ed è tornato in patria, camminando per settimane e chiedendo cibo e riparo lungo la via: «Sono tornato per i miei bambini, sei mesi senza lavoro e lontano dalla mia famiglia sono stati duri».

Come migliaia di connazionali, Oswaldo rientra in un Paese afflitto da una crisi profonda, in cui il coronavirus è solo uno dei tanti fattori di preoccupazione. La sua diffusione, stando ai dati ufficiali, non pare alta: 90.400 casi totali, con 84.907 guarigioni a fronte di oltre 6mila persone ancora in cura e 780 decessi. Cifre alle quali però non credono gli analisti di Human Rights Watch, che ritengono «molto probabile » che i numeri siano più alti. Il presidente Nicolás Maduro ha assicurato di voler accogliere «con amor» gli emigranti di ritorno, ma i proclami si scontrano con la realtà di un Paese dove mancano viveri, medicinali e perfino acqua pulita. Nel frattempo, lo scontro politico a distanza fra lui e il leader dell’opposizione Juan Guaidò va avanti.

In vista delle elezioni parlamentari di inizio dicembre, paventando il rischio di frodi da parte del governo post–chavista, l’opposizione ha convocato una Consulta. E su Maduro pende una durissima valutazione delle Nazioni Unite, che a settembre in un rapporto di oltre 400 pagine hanno denunciato un lungo elenco di crimini contro l’umanità (omicidi, torture e altri reati) addebitabili al suo regime, sollecitando la Corte penale internazionale dell’Aja a svolgere accertamenti sul caso.

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