giovedì 10 novembre 2022
Oleg con i carichi di aiuti si presenta nelle case di mezza Ucraina: dai dintorni di Kiev all’Est sotto le bombe
Oleg, il «gigante buono» di Irpin

Oleg, il «gigante buono» di Irpin - Gambassi

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Il carro armato russo era a duecento metri da casa sua. « E da lì sparava su tutto il paese». Uno dei suoi amici è morto in auto con la figlioletta. « Aveva scritto sul parabrezza: “Bambini”. Doveva portare la piccola in ospedale. I russi hanno centrato la vettura con un colpo d’artiglieria ed è esplosa prima di essere divorata dalle fiamme». L’ex moglie e la figlia sono in Germania. « Andavano messe al sicuro». Oleg, «soltanto Oleg» come è solito ripetere, non ha mai lasciato Irpin, la città martire che nel primo mese di guerra è finita al centro dei combattimenti fra russi e ucraini pagando un prezzo che nessuno sinora ha calcolato: un terzo degli edifici è ancora distrutto; centinaia i morti; i cadaveri sepolti anche lungo le strade o nei giardini.

«La guerra ti cambia: in meglio o in peggio, sta a te decidere», sostiene questo ragazzone di 39 anni dal fare sbrigativo che, quando bussa alle porte delle case o arriva agli ingressi degli ospedali, si presenta sempre con il cappellino sulla testa e gli occhiali da vista. Ma soprattutto con i carichi di aiuti che porta in tutta l’Ucraina: dai dintorni di Kiev all’Est sotto le bombe.

Ultime tappe: Kharkiv e Izyum, la cittadina fantasma delle fosse comuni. «Sono vivo. E allora diventa un dovere soccorrere chi sta soffrendo di più per la follia della guerra». Il dolore e l’inevitabile rancore hanno lasciato il posto alla solidarietà in Oleg, il «gigante buono» come lo chiamano alla Caritas-Spes di Kiev. È la sua seconda casa da quando è tornato “libero”, come tutta Irpin, dopo un mese di occupazione russa.

«Non sono religioso. Mia madre è ortodossa. E oggi la mia filosofia si riassume in un motto: se c’è bisogno di aiutare, io ci sono. Ritengo la Caritas la via migliore per andare incontro alla gente in difficoltà», spiega. Consegna “pacchi famiglia” alle anziane che restano nei villaggi di campagna distrutti; e loro lo abbracciano come un figlio. Recapita i medicinali nelle cliniche che, racconta, «hanno come pazienti soprattutto i militari feriti» e dove «una delle urgenze è la loro riabilitazione e l’assistenza di lungo periodo». Arriva fino a ridosso del fronte, nei centri appena liberati in cui «non mancano l’acqua, l’energia elettrica, il gas e quindi non puoi neppure cucinare: perciò serve il cibo pronto».

Un sorriso. « A me, invece, per sopravvivere bastano il caminetto di casa e l’orto. Il resto, compreso il proprio tempo, va dato gli altri». Oleg è tornato con i genitori. Come il fratello. « Insieme si affronta meglio la complessità di un conflitto», riflette. Ha fatto fuggire una famiglia da Irpin sotto assedio. «Una notte nel bosco sotto zero; e poi al mattino presto il fiume attraversato in qualche modo per raggiungere la riva controllata dai nostri militari». È stato il primo a portare il pane fresco “ucraino” nella città che l’esercito russo stava abbandonando.

«Qualche sacchetto di sfilatini passato sotto il ponte distrutto e una tanica di benzina per riprendere a usare l’auto e distribuire il tutto ». Ma quando parla della Russia, non lascia trasparire sete di vendetta. «Ho amici a Mosca. Alcuni condannano l’attacco. Altri mi rivelano che l’effetto delle sanzioni si fa sentire: lavoravano con società occidentali e ora sono in grave difficoltà». «Certo – argomenta per finire il gigante buono di Irpin con la voce rotta dalla commozione –, che cosa devo pensare di un Paese che spara colpi sui tuoi condomini o alla tua gente venti ore al giorno, come accadeva a Irpin nel primo mese d’invasione? Oppure che ti manda i militari dentro casa con il fucile. E loro ti urlano: “Siete nazisti. Fate quello che vi diciamo e non vi ammazziamo”? Se non vuoi finire prigioniero anche dell’odio, meglio stare accanto a chi ha perso tutto».

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