martedì 21 dicembre 2021
Le autorità del Tigrai hanno ordinato il ritiro dalle zone occupate negli stati regionali di Amhara e Afar. Lettera del leader del Tplf all'Onu: "Diamo una possibilità alla pace, basta bombardamenti"
Vecchi blindati sovietici nelle strade della capitale etiope Addis Abeba: ieri i ribelli hanno annunciato il ritiro

Vecchi blindati sovietici nelle strade della capitale etiope Addis Abeba: ieri i ribelli hanno annunciato il ritiro - Ansa

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Ordine di ritiro immediato nel Tigrai per dare una possibilità alla pace. O per rendere evidente, dicono gli osservatori, che la guerra oscurata d’Etiopia non può vincerla nessuno. Il presidente dello Stato regionale autonomo del Tigrai Debretsien Gebremichael ha annunciato domenica con una lettera al Segretario generale dell’Onu Antonio Guetrres di aver ordinato il ritiro immediato delle truppe di difesa che combattono il governo centrale dalle aree delle regioni limitrofe Amhara e Afar occupate dalla scorsa estate.

Una tregua di fatto. Si tratta, sostengono le autorità tigrine, di un ritorno entro i confini nel nord per consentire l’afflusso degli aiuti umanitari alla popolazione civile allo stremo per un blocco attuato da 13 mesi e mezzo dal governo di Addis Abeba. La conferma è arrivata alle agenzie di stampa internazionali anche dal portavoce del partito del fronte di liberazione tigrino ( Tplf) Getachew Reda. Debretsien scrive alle Nazioni Unite 48 ore dopo che il Consiglio dei diritti umani a Ginevra, nonostante l’opposizione di Cina Russia, India e dei Paesi africani, ha approvato la creazione di una commissione di inchiesta indipendente sui crimini di guerra e gli abusi commessi dai belligeranti.

E scrive di voler offrire con il ritiro «un’apertura decisiva alla pace » in una lettera da leggere in controluce per capire cosa sta succedendo. Il leader del Tplf denuncia il fallimento della comunità internazionale in Etiopia e ribadisce che il suo popolo ha resistito alle truppe etiopi ed eritree alleate (che avrebbero preparato la guerra almeno da due anni, come ha scritto recentemente il New York Times) e alle milizie e forze speciali Amhara, oltre che ai bombardamenti dei droni forniti al premier Nobel per la pace 2019 da potenze straniere (in particolare da Cina, Emirati Arabi e Turchia, come ha scritto nei giorni scorsi Francesco Palmas su questo giornale).

Debretsien sottolinea come invece il Tigrai non abbia ricevuto «un solo proiettile o un’uniforme» da potenze straniere, replicando ad Abiy che lo aveva accusato di essere aiutato dagli Stati Uniti, e quindi «non ha debiti con nessuno». Il capo tigrino accusa i due governi nemici etiope ed eritreo di aver tentato un genocidio durante l’occupazione del territorio da novembre 2020 a giugno 2021 e in particolare il governo di Addis Abeba di aver usato risorse contro il suo stesso popolo causando lutti, sofferenze e bruciando il futuro dei giovani.

Chiede al Consiglio di sicurezza di dichiarare una no fly zone sul Tigrai e imporre un embargo alla vendita di armi a Etiopia ed Eritrea. E il ritiro dalla parte occidentale e dalle aree al confine con l’Eritrea ancora occupate dalle milizie Amhara e dell’esercito asmarino. Cosa ha portato al dietro front dei tigrini, arrivati un mese e mezzo fa a meno di 200 chilometri da Addis Abeba? E che hanno stretto un’alleanza con i ribelli Oromo sottoscrivendo un patto negli Usa con altre realtà in lotta con il governo centrale per formare un esecutivo di transizione? Certamente i bombardamenti letali dei droni sulle città tigrine e sulle truppe, le quali si sono ritirate spesso senza combattere dalle città occupate. E la politica nel Corno degli Usa, che al momento vedrebbero Abiy garante dell’unità nazionale e avrebbero garantito al Tplf lo sblocco degli aiuti in cambio della ritirata. Tocca ora al Nobel per la pace scegliere se accettare tregua e trattativa con gli arcinemici o proseguire l’«operazione di polizia » diventata catastrofe umanitaria.

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