domenica 1 novembre 2020
La crescita economica e il calo dei disoccupati, fino allo scoppio della pandemia, erano stati i principali risultati interni di Trump. Che in politica estera e sui migranti ha suscitato polemiche
Donald Trump si è sottoposto a una maratona di comizi per restare aggrappato al potere

Donald Trump si è sottoposto a una maratona di comizi per restare aggrappato al potere - Reuters

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Quattro anni iniziati con la vittoria a sorpresa su Hillary Clinton e proseguiti con uno stile e una cifra del tutto personali. Nessun presidente come Donald Trump aveva polarizzato così tanto l’America. Chi lo apprezza lo ama senza riserve, chi lo critica ancora non capisce come tutto ciò sia potuto accadere. Sia che le elezioni mettano la parola fine all’era Trump sia che, al contrario, il miliardario newyorchese dovesse vincere un nuovo mandato, niente sarà più lo stesso. Il tasso di approvazione verso il capo della Casa Bianca è oggi al 42%, contro il record del 54% toccato nel luglio 2017. Sul progressivo calo di consensi hanno influito moltissimi fattori, non ultimo la gestione della crisi del Covid-19. Ma il calo si tradurrà poi in un crollo di voti? Già una volta Trump ha dimostrato di poter clamorosamente smentire tutti. Joe Biden spera che questa volta non faccia il bis.

L’economia Per gli strateghi della campagna elettorale di Donald Trump, l’economia è il punto centrale, quello sul quale poggiavano, e tuttora poggiano, le speranze di permanenza alla Casa Bianca. Nel 2019, prima che la pandemia di coronavirus cambiasse il volto del mondo, il Pil degli Stati Uniti cresceva del 2,3% (e del 2,8% l’anno prima), mentre a febbraio 2020 il tasso di disoccupazione era appena al 3,5%. Trump ha sempre dato il merito della crescita alla sua riforma fiscale del 2017, anche se i critici hanno parlato soprattutto di un maxi-regalo per gli azionisti delle grandi aziende (per le imprese tasse in calo dal 35 al 21%), con effetti limitati sulla crescita degli investimenti. Sia come sia è sui buoni dati economici che il repubblicano avrebbe dovuto impostare l’intera campagna per la rielezione. Il Covid- 19 si è invece preso la scena, contribuendo tra l’altro proprio al drammatico crollo dell’occupazione e dell’economia in generale. Gli ultimi dati vedono in realtà gli Usa alzare la testa, con un aumento nel terzo trimestre dell’anno del Pil, delle esportazioni e dei consumi. Troppo tardi?

All’estero Lo scontro commerciale con la Cina, l’abboccamento con la Corea del Nord e lo storico incontro con Kim Jong-un, le continue critiche alla Nato, i rapporti altalenanti con l’Europa, il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran e dall’intesa sul clima di Parigi, l’indecifrabile rapporto con Vladimir Putin, gli “accordi di Abramo” in Medio Oriente giusto a ridosso delle elezioni presidenziali. La politica estera di Trump è apparsa in questi quattro anni un continuo saliscendi, scandito a volte più dagli umori momentanei del presidente Usa che dalla visione a lungo termine delle conseguenze di alcune scelte. Con Pyongyang, dopo le speranze suscitate dall’improvviso un incontro tra i due leader, lo stallo nei negoziati è totale, con l’Iran il braccio di ferro è a colpi di tweet e strappi, mentre con Pechino si è passati dalle minacce sui dazi a quelle sulla chiusura dei social network cinesi. Alla fine il risultato che Trump ha “venduto” nelle ultime settimane è stato soprattutto il raggiungimento degli accordi di pace tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, “l’alba di un nuovo Medio Oriente”.

L’immigrazione Era stata una delle sue principali promesse nel 2016. L’immigrazione irregolare e la costruzione di un muro al confine meridionale con il Messico sono stati per Trump croce e delizia, motivo di scontro con i democratici ma anche di vanto rispetto al “lassismo” dei suoi predecessori. Quattro anni dopo la barriera è ancora largamente incompleta e, secondo vari rapporti dagli agenti di frontiera, facilmente aggirabile dai trafficanti di droga e di uomini. Inoltre, lo scorso giugno, una corte di appello della California ha stabilito che il ricorso a parte dei fondi del Pentagono per costruire il muro (e aggirare le lungaggini e l’opposizione del Congresso) è stato illegale. Per far fronte ai ritardi sul muro, Trump ha messo in piedi una sorta di barriera legale, fatta di ordini esecutivi, azioni amministrative contro i migranti e accordi “strappati” a Paesi terzi. Sul bilancio dell’amministrazione Trump resta poi il ricordo delle famiglie di immigrati – giunte dall’America Latina attraverso il confine messicano – separate al confine, con bambini e minorenni allontanati dai loro genitori per settimane.

Twitter Una presidenza a colpi di tweet. Non c’è stato giorno, in questi quattro anni, in cui Donald Trump non abbia esternato sul suo social network preferito. Il record, il 6 giugno scorso, è di 200 tra tweet e retweet, ovvero messaggi propri e messaggi di altri utenti rilanciati dal presidente Usa. È il trionfo della disintermediazione. Altro che uffici stampa e portavoce: se ha qualcosa da dire, se ha un leader straniero a cui rivolgersi, se deve pubblicizzare un risultato raggiunto, Trump impugna lo smartphone e non si trattiene. Con esiti però a volte anche bizzarri o discutibili. «Nei prossimi giorni dovrebbe diventare ancora più freddo. Che diavolo sta succedendo con il riscaldamento climatico? Per favore, torna presto, abbiamo bisogno di te!», twittava nel gennaio 2019. Per non dire del diluvio di tweet contro l’impeachment, bollato come «caccia alle streghe» ordita dai democratici. Memorabili le minacce al leader nordcoreano Kim Jong-un («Ho un pulsante nucleare, ma è molto più grosso e potente del suo, e il mio pulsante funziona!») o le invettive contro i manifestanti del Black Lives matter («Questi anarchici, non manifestanti, sono elettori di Biden, ma lui non ha alcun controllo e niente da dire. Vergognoso. Mai visto niente di simile. Teppisti!»). Per concludere così, dopo il suo ricovero causa Covid: «Mi sento davvero bene! Non abbiate paura del Covid. Non lasciate che domini la vostra vita. Mi sento meglio di 20 anni fa!».

Domande&risposte

Come si elegge il presidente?
Con il proprio voto l’elettore nomina i grandi elettori (in numero proporzionale alla popolazione del suo Stato), che eleggeranno effettivamente il presidente in un secondo momento. I grandi elettori sono 538: ad un candidato sono necessari quindi 270 voti per aggiudicarsi la Casa Bianca.

Cosa succede in caso di parità?
La decisione viene demandata alla Camera dei rappresentanti che sceglie il presidente fra i tre candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti elettorali. La delegazione di ciascuno Stato alla Camera deve esprimere un solo voto. Diventa presidente chi ottiene la maggioranza dei voti per Stato: 26.

Perché si vota di martedì?
Venne deciso nel 1845, quando il Congresso decise di uniformare il giorno in cui si votava nei diversi Stati americani. Il lunedì avrebbe richiesto a molti elettori di partire da casa la domenica per votare. E la domenica era sacra. Così si decise per il martedì dopo il primo lunedì di novembre.

Chi può diventare presidente?
I requisiti per diventare presidente sono tre: un’età superiore ai 35 anni, essere nati sul territorio degli Stati Uniti e risiedervi da almeno 14 anni.

Cosa sono i cosiddetti «Swing States»?
Sono gli Stati costantemente in bilico tra repubblicani e democratici: per storia, posizione geografica, demografia e flussi migratori, vedono oscillare la loro preferenza e non hanno quindi un colore sicuro nella mappa elettorale.

Quanto dura il mandato presidenziale?
Il mandato presidenziale dura 4 anni. L’incarico inizia formalmente il 20 gennaio successivo al giorno delle elezioni. Nessuno non può andare oltre due mandati alla Casa Bianca. In caso di morte o dimissioni, è il vice presidente ad assumere l’incarico.

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